…a Gaza troppe volte abbiamo visto il mondo finire.
Bombardati noi, non dalle bombe ma dalle immagini che arrivano come pallottole di una mitragliatrice, possiamo scegliere se difenderci o se restare. Se restare in silenzio o provare a dire qualcosa, a fare qualcosa: diffondere le testimonianze di chi è lì per soccorrere, rischiando la pelle, scendere in piazza, sventolare bandiere, suonare campane, gridare free Palestina, lanciare messaggi con i nostri corpi incolumi, volontariamente sottoposti a rinunce irrisorie, ma che basterebbero a sfamare una classe intera di bambini affamati, mandare un aiuto se ce lo possiamo permettere. Scrivere due righe per cercare di capire come si arriva a scegliere la fine del mondo.

Il film ha fatto il suo debutto nelle sale italiane, e non solo, mercoledì 23 luglio 2025.
È presto detto: questo film rebootta il quartetto di personaggi apparso l’ultima volta sullo schermo nel 2015 – il comune sentire popolare pare aver decretato l’insuccesso di questa penultima versione – e lo fa affidando – non ce ne voglia l’altra metà, comunque di grande bravura, – i due quarti della formazione ad un attore e ad un’attrice che vantano curriculum importantissimi in linea con i loro luminescenti talenti: sì, perché sono Pedro Pascal e Vanessa Kirby ad interpretare la coppia composta da Mr Fantastic e la Donna Invisibile e a dare vita ad un feeling sullo schermo che parla da solo del valore dell’intera operazione.
Joseph Quinn ed Ebon Moss-Bachrach sono rispettivamente “La Torcia umana” e “La Cosa”.

Quando pensiamo a Martin Margiela e alla sua estetica, ricordiamo la maschera. Celarsi e celare era il suo marchio. La sua etichetta un processo numerico che indicava la produzione di un oggetto di design da cui era allontanato l’ego del creatore. Un pensiero dadaista di presa di distanza, di oggettività, di onestà creativa. E cosi pure di relazione con l’altro, da cui nasceva un rapporto generativo di creatività. L’altro come ragione di vita. Un atteggiamento unico nella Moda che invece ama celebrarsi, visualizzare, trasfigurare…

Parliamo del Teatro di Paglia e della rassegna diretta da Manuela Mandracchia e Fabio Cocifoglia, organizzata dall’Azienda agricola Il Nemus, un’esperienza virtuosa che fa parte di un più ampio progetto altrettanto virtuoso che è la Rete dei Teatri di Paglia, diffusa in tutta Italia e nata nel 2011 in seguito al successo del primo Teatro nato nel 2003 a Rendola, un paesino toscano sui colli aretini nel comune di Montevarchi, da un format di Nicholas Bawtree.
Starete comodamente seduti, garantisco, su apposite balle di paglia disposte in un anfiteatro naturale, nel silenzio assoluto della sera che cala, a mano a mano che la visita guidata ai celebri bronzi procede.
D’accordo, si gioca ma nemmeno poi tanto. Perché il suggerimento è vivissimo e la bellezza incontaminata del luogo vale la trasferta. Se poi è corroborata dalla visione di uno spettacolo cult come Il custode, una chicca nel repertorio di Paolo Triestino, a maggiore ragione.

Improvvisamente l’estate scorsa è il dramma più simbolico e visionario ti Tennessee Williams. L’opera in cui, oltretutto, l’autore americano ha inserito molti riferimenti alla sua vicenda personale e familiare. Sono espliciti i riferimenti ad una omosessualità vissuta con molti sensi di colpa, in un periodo in cui Williams veniva invitato dal suo medico personale a reprimerla, e alla vicenda della sorella Rose, sottoposta ad un intervento di lobotomia con il consenso della madre. La trama si sviluppa come un thriller psicologico intorno alla misteriosa morte di Sebastian…

Due che mettono soggezione. Per come, giocando, si mettono a nudo. Per come giocano mettendosi a nudo. Jouer, to play. Il teatro senza fraintendimenti. Ce lo dispensano in un’acrobatica ora e mezza due giovanissimi istrioni del palcoscenico, Alessandro Bandini e Alfonso De Vreese, attor giovani, si sarebbe detto una volta, virgulti pieni di belle speranze a cui si rispondeva con promesse attendibili. Under trenta, trentacinque, abbiamo preso a dire adesso: da quando sparuti finanziamenti con bandi dedicati hanno finto di incoraggiare le giovani leve per far fuori gli over meritevoli senza tante spiegazioni. Tant’è. Quello che è certo è che questi due, di under, hanno soltanto l’età.
Il testo è una rocambolesca e assai verosimile storia d’amore scritta da un altro under trenta o giù di lì, Diego Pleuteri, al quale il regista over trentacinque ma under quaranta Leonardo Lidi ha di nuovo dato fiducia perché è giusto non aspettare che un giovane autore sia stanco di provare a fare l’autore e venga preso sul serio finché siamo in tempo.

Occorre tutta la nostra buona volontà e forza d’animo per potere vivere e lavorare in una realtà in così veloce trasformazione, e anche coraggio. Una qualità che l’umano contemporaneo pare abbia perduto, reminiscenza di ricordi lontani quando si moriva per una fede. Ora siamo incerti e spaventati, confusi su quale direzione prendere, a chi dare retta, presi tra evoluzione tecnologica ed empatia, conservatorismo e progressismo, destra e sinistra, idealismi e necessità. La convenienza a cui un certo progresso ci ha abituato, ha spazzato via ogni resistenza, ogni capacità di opporsi, di lottare.

Ruggero Artale è uno studioso del ritmo, e nella contaminazione che fa tra il “suo suono”, carico di vissuto e studio, e la musica africana tribale, carica di misticismo e primitivismo, ci regala suggestioni nuove e una visione degli strumenti a percussione come un ritrovamento della nostra antica e profonda provenienza da quel continente melanconico e ribelle che è l’Africa.
C’è, anche nel suo portamento, lento e denso, quell’atteggiamento spirituale che contorna la sua personalità, subito evidente mentre suona i suoi amati e curati djembe, quelle “casse cave di legno a forma di calice” che tratta come persone che portano la loro storia.

Questo sono i sogni: stanze vuote comunicanti. E quando l’infrangersi della fiducia nella realtà crea ombre, solo i cristalli di luce surreali dei bicchieri rotti, delle gocce di pioggia o delle lacrime, l’apertura di una porta verso l’interno, nel buio, per fare entrare la lampadina del corridoio, o la luce del sole dalle fessure delle tapparelle, con le pareti a strisce e il pavimento occupato dai dettagli a pezzetti, il giallo acceso di una lampada lungo un letto sperduto, o una scrivania invasa, che si allunga per gli spigoli sui soffitti, solo questi sprazzi di immaginifico possono riportarci all’interno del tutto, e sopra le cose di tutti i giorni. È come leggere, o scrivere, quando diventa necessario, essenziale, per singole parole sopraggiunte. Intravedendo. Sospettando. Inventando.
L’invito è a leggere. E io aggiungo: a scrivere!

Di queste Schegge disordinate a inchiostro policromo, spettacolo di Fausto Cabra, regista, testo di Gianni Forte, con Raffele Esposito, Anna Gualdo ed Elena Gigliotti, si è già scritto moltissimo. I feedback di pubblico e critica che passano anche attraverso i social, megafono non soltanto di pance ma anche di teste ben avvezze al teatro, sono sostanzialmente concordi nell’approvare l’operazione.