«E s’assomigliano quelli che si scelsero alleati altri che Dio, al ragno, che si sceglie una casa, ma la più tenue delle case è la casa del ragno, se essi sapessero!»
(dal Corano 29.41)
Se non mi abiti tu non potrò lasciarmi abitare da nessuno. E’ un luogo abitabile, l’anima. Un vaso che sa di fiori solo per l’idea di poterli accogliere, è profumo prima d’essere petalo. E’ una dimensione senza misura, senza confine. E’ l’immateriale che si fa sostanza. Leggera come il pulviscolo atmosferico. E’ per questo che le cose, quelle vicine alla nostra anima, finiscono per somigliarci. Finiscono per ricoprirsi di una patina che sa di noi.
E’ una storia di contrari semantici, Il ragno, ultimo lavoro di Anna Rivelli, in cui i dentro invisibili devono inventare stanze-oasi e pianerottoli-bunker per riconoscersi e i fuori sono prigioni bigotte o ragnatele vischiose, immateriali, in cui l’anima non esiste: le ragnatele finiscono sempre per essere trappole per il corpo. L’anima è una lama in potenza e questa è la storia di un’anima che taglia le ragnatele e si riversa nel mondo.
Virginia cammina col vento in faccia e un passo troppo rumoroso, oltraggio scandaloso alla purezza del composto silenzio borghese di una famiglia falsamente impeccabile e perfetta in cui vive col ruolo di outsider protagonista. E’ lei l’anima che subisce l’assedio di un padre-ragno d’acciaio che prende e svuota, che tutto eviscera e tutto avvolge, che ogni preda riveste con una miserrima perfezione ibridante, in cui tutto è solo forma scontornata. Un padre che è simbolo di un mal di vivere, della stanchezza di un dover essere per evitare di esistere. E’ lei l’anima che combatte contro una madre senza carne, senza battito vitale, svuotata di ogni più lieve carnalità, di ogni più leggera frivolezza. Se l’amore è un modo di essere frivoli…
Fuori, sono tutti supereroi senza macchia che s’accovano in un dentro in cui invece sono mostri, ragni e zombie, dagli occhi chiari e il vestito buono della domenica in chiesa.
Anna Rivelli ricama con minuzia un mondo in cui i suoi personaggi sono eviscerati per loro scelta e mai viscerali; non riescono mai a guardarsi dentro, la loro unica aspirazione è la superficie, epurata però della vitalità della carne, e la loro unica paura è in verità una colpa: non essere realmente ciò che lo status sociale impone loro. L’autrice li affida magistralmente allo stadio ectoplasmatico, sembrano mantenersi nel tratteggio, nell’indistinto, nell’abbozzo. Qui, da un carattere poco distinto, è più facile incanalare l’odio, manovrare la discriminazione e foraggiare l’abitudine a fare il male.
Il dolore, se arriva da un gomitolo indistinto, fa più male e riesce a farti credere che sia dappertutto.
Virginia invece è un intimo che respira. La sua è una profondità a stento trattenuta che contagia ogni cosa prima ancora del contatto. Si muove in un mondo in cui accadono cose per cui la terra ha più luce del cielo e le superfici scompaiono e si dissolvono nella potenza delle sensazioni. Lei stessa è una sensazione, un continuo magma di sensazioni. Lei stessa è poesia, quando assegna vita alle cose che non ce l’hanno e il cuore le cade nelle calze dal troppo dolersi di ogni più piccolo dolore. La narrazione in prima persona accondiscende la discesa in questo luogo che è in divenire.
E’ una sensazione Paolo, l’uomo che cambierà completamente il corso della vita di Virginia e che tesse sulla storia quel tratto magico che l’attraversa fino all’ultima riga. Paolo che è un colore, un odore penetrante, una stretta di mano decisa, un passo leggero, un respiro impalpabile. Sensazione. Si può descrivere una sensazione?
Il ragno è un angolo di buio in cui si arriva alla luce cambiando lo sguardo verso le cose e non le cose da guardare. E’ un romanzo che a tratti scivola nella poesia, luogo consuetudinario per l’autrice e che restituisce dignità alla bellezza femminile, nel riscatto di tutte quelle donne che riescono a spezzare le ragnatele dell’iperrealtà di genere esasperante che le circonda e le soffoca. Ma è anche un monito verso i predatori, quei padri, quegli uomini, per i quali spesso è il destino stesso a tessere una tela ancora più fredda e crudele di quella che da sempre amano fabbricare nei loro piccoli, crudeli mondi d’apparenza.
Il ragno è un luogo in cui i bottoni di un vecchio pupazzo sono occhi e dove le cose accadono se alle cose si crede fermamente.
Nell’alternanza continua di contrari, fra una realtà evanescente e un’irrealtà che si connota invece di tutti i tratti della presenza, Virginia uscirà da una vita che è di tutti tranne che sua per entrare in una dimensione altra, in cui ogni cosa profuma di sandalo e ambra. Qui le parole hanno il disincanto della poesia e si colorano d’azzurro e le anime si sfiorano, si prendono senza pretendere di diventare prigioni anguste. Qui il tempo scivola o s’immobilizza in una fissità che si fa presenza.
In un finale inatteso e indefinito in cui l’inspiegabile prende la forma del vero e le dimensioni dell’impossibile, farsi domande è come chiedersi quale sia l’inclinazione del piano dell’equatore della terra rispetto al sole, guardando un tramonto sul mare.