Chiunque abbia mai una volta edificato un nuovo cielo trovò la potenza per questa impresa unicamente nel suo proprio inferno (Friedrich Nietzsche)
Quando stai per entrare in una stanza con dei dipinti, a iniziare il percorso museale che ti viene imposto, con le sue luci, la moquette e i guardiani vicini a quelle loro sedie consumate a presidio delle porte, passaggi obbligati verso altre stanze, altri guardiani, altre sedie, sei consapevole che il prezzo del biglietto logorato fra le tue mani non basterà a rendere il minimo di quel che vedi dentro di te attraverso. Neanche il riflesso di un’esperienza unica, il convincimento di una visione intravista creduta fragile e irripetibile.
Più spesso, oltrepassando velocemente, in accumulo di immagini, autori e movimenti, facciamo impietoso abuso di opere dolorose senza tenerne cura, cacciando dentro ma nervosamente colori e forme, come nella tasca del cappotto le mani annoiate per non aver potuto gesti, con dentro stropicciato quel titolo di viaggio, il biglietto, ad affrettarne la fine, rinfrancati, ma solo una volta all’uscita, e ormai pronti per un caffè, ché almeno si possa mostrare la prova di una propria cultura, seppure così superficialmente sedimentata. Consumatori distratti, eppure apparentemente molto esigenti.
Le mostre spesso sono fatte così, e le visitiamo così, immaginando percorsi noiosi e tortuosi che i curatori approntano per masse di viaggiatori scontenti in fuga dentro una stanza dalla città, e che gli stessi utenti affrontano già delusi e ipercritici portandosi dietro, finanche sugli abissi orridi e immensi dell’arte, il rumore di un’esistenza qualunque, la propria voce sguaiata e gracchiante, sovradimensionata, abituata ai centri commerciali, al traffico disordinato, alle urla tragiche di una società ormai fin troppo slabbrata. Allora corridoi. Corridoi dove accalcarsi come dei tori fino al macello, e com’è negli altri giorni, per uffici e sportelli di burocrati incattiviti, in corridoi di edifici pubblici contemporanei qui in Italia, faziosamente labirintici qui a Roma.
Poi però, stranamente, all’improvviso, ti capita di trovare spazi e silenzi, proprio in questa città così massacrata e vilipesa. Viaggi interiori in mezzo ad altri mondi, altre persone come te ammutolite e sole.
Così, nella quiete ovattata di un azzurro infelice di Palazzo Cipolla, da Via del Corso, in un suo ordinario, disumano, sabato romano, ti rimproveri lo scetticismo blaterato fino proprio all’uscio di quella “chiesa”, e di non aver creduto che invece stavolta poteva essere davvero un sabato diverso. Sulla soglia di quel luogo tutto ciò che lasci alle tue spalle non entrerà mai più a divorare il bello che ti appartiene. Diventi un altro. Non corridoi, non guardiani alle porte come vampiri, solo stanze segrete e finestre sul muro, dal vuoto acuto di questo mondo comune e brutto.
E per questo viaggio intenso, emotivo, non c’è ritmo ossequioso che non puoi disattendere. Non puoi proprio far di fretta, pensando per esempio al caffè, ti devi fermare, più volte. Né puoi divagare biasimando accostamenti, illuminazione, didascalie, come hai fatto in altre occasioni, ma forse solo per speculare, per dire che sai di arte, e di cultura. Oltre l’interruzione fisica dei guardiani mai conosciuti così discreti, ogni rettangolo di vita (o di morte) messo sulle pareti è una battuta d’arresto fissata ormai per sempre. Resti e nessuno ti spinge oltre.
Ogni autore è nella sua stanza, come fosse la mente tragica da cui ha sviluppato le proprie immagini maledette, fino alle ultime due di Modigliani e Soutine, dove è possibile finalmente accasciarsi su tiepidi sedili, ristoro di malinconie, di fronte ad occhi vuoti, mani composte su grembi di lutto, volti straziati dal pregiudizio, corpi di animali sventrati con ancora il sangue che cola sul pavimento di una macelleria. Questo solo però dopo aver passato per cieli profondi e melodici intermezzi.
Proprio all’entrata di questa mostra così pregiata (a cura di Marc Restellini, complimenti per questo allestimento davvero commovente!), c’è un uomo seduto (“Ritratto d’uomo”, il ritratto di Jonas Netter, un’opera di Moise Kisling del 1920). Netter è il compratore d’arte illuminato che vorremmo avere anche oggi nel nostro tempo (invece ci toccano solo sguaiati e arricchiti stupratori d’opere e cafoni di mezzo). È il lungimirante mercante e collezionista senza il quale tutte queste opere non avrebbero avuto attenzione e forse non sarebbero state per noi così fruibili, almeno tutte insieme. Non potendo acquistare i quadri degli impressionisti, troppo costosi, si racconta si accontentò dei “maledetti”, ma se li assicurò (quasi) tutti, così ché nessuno di quelli poi andò perduto.
Subito dopo, in una nicchia preziosa, con la luce nebbiosa del crepuscolo riprodotto, i deliziosi ritratti di Jeanne (“Ritratto di ragazza dai capelli rossi”, Modigliani 1918) e di Léopold Zborowski, Modigliani 1916, (quell’altro collezionista, dissoluto, del pittore italiano). Perché è Modigliani che magnetizza tutti i poeti maledetti di Montparnasse.
Ma Modigliani addirittura scivola in secondo piano lungo il percorso ancora da percorrere (non però come in altre mostre dove il nome serve solo per attirare gente, mentre poi i quadri sono di “altri”, di solito suoi contemporanei). Scivola in secondo piano, come anche il magnifico Soutine, perché la meraviglia per le altre opere di altri autori magari non conosciute, o mai mostrate pubblicamente come in questo contesto, diventano il limbo dove cercare influenze e corrispondenze, o invece il fluido denso a quel risultato così tanto atteso di quegli ultimi due, che perciò sono stati messi proprio nel fondo dove arrivare in qualche modo già quasi sazi.
Prima di quei colli lunghi, di quei colori antichi e così moderni, prima degli sguardi folli intrappolati da Soutine, si attraversano le donne spigolose e ruvide, dagli occhi aspri e le bocche serrate di Suzanne Valadon, i “Tre nudi in campagna”, con le forme emancipate e scomposte di donne abbondanti e fiere. Uno dei quadri più belli di questa pittrice (ma tutto è soggettivo) è il “Nudo che si pettina”, fra tende e lenzuola abbandonate, coi fiori secchi sopra un tavolino, i capelli sfatti di una notte insonne, sollevati con le mani enormi di una contadina sciatta. Ma questi nudi non sono mai volgari, invece carichi di compassione e umanità. Davvero travolgenti. E ti senti anche tu donna evoluta e coraggiosa. Susanne è la modella voluttuosa, amante di molti artisti (tra cui Renoir, Toulouse-Lautrec e Satie), pregiata artista essa stessa, innovatrice e dirompente. Appena diciottenne dà alla luce un figlio “di padre che non vuole essere nominato”. Quel figlio è Maurice Utrillo (forse il figlio del giornalista spagnolo Miguel Utrillo, e che da Miguel Utrillo verrà riconosciuto), Certo uno degli autori più interessanti di questa esposizione. In un ritratto, il “Ritratto di Gaby”, del 1917, il racconto di occhi tristi e azzurri, nascosti sotto il cappello fin troppo grande per un visino così tenero e fragile. Feriscono drammaticamente oltrepassando il blu/verde intenso della giacca che li avvolge enorme. Un altro quadro unico di Suzanne è il “Vaso di fiori”: fiori tutti diversi ai piedi di un letto soltanto intravisto.
Ma la stanza che è stato difficile abbandonare, a costo di impazzire, è quella di Utrillo. Tutti cieli grigi. Gli alberi piangono. Le case sembrano vuote. Solo un passante va di spalle sopra un selciato, ma è indefinito, sia il passante, sia il selciato. Le chiese fanno paura. Le porte sono buie. Le nuvole sono solo impressioni, mentre i campanili appuntiti penetrano ogni metafisica interpretazione dell’al di là. Viali desolati che nessuno vuole attraversare, rami che si assottigliano perché sempre più secchi vanno in alto nella palude che li sovrasta. Senza miraggi di luce possibile. Il cielo è netto e le città si polverizzano come in ricordi. Eppure in mezzo a tutta quest’angoscia rarefatta, evanescente, con margini di sangue e orizzonti di morte, alcune finestre sono proprio blu, e in mezzo a tutto questo buio spicca un quadro diverso, felice: “Rue Marcadet a Parigi” (immagine in evidenza sull’articolo). Ma ancora e di più tu soffri di fronte a quell’unico cielo turchese. Realizzato col gesso è destinato a svanire. Dentro a quel quadro, visione di infinito, le foglie diventano uccelli. È forse quel quadro che spicca, col suo cupo ottimismo, a ingrigire inesorabilmente tutto il resto. Ma c’è, e tu speri.
Di André Derain, stavolta in una piccola stanza, intima e più cupa, il quadro “Nudo stante”. L’immagine di una donna, sempre con i capelli rossi, apparentemente facile eppure pudica. Svelata nella sua nudità impotente. Ma i suoi occhi accesi arrestano ogni sguardo violento. L’armonia della mani, una tiene la testa, l’altra nasconde con un lenzuolo l’addome, contiene per quanto è possibile, di fronte a chi sveste senza rispetto, il disfacimento, il crollo improvviso, l’abbattimento. Concentra la luce del corpo, ma dietro c’è il nero di tutta una tela realizzata senza sfondo.
Di Moise Kisling un’altra donna. “Donna con maglione rosso”. Il viso piegato e i capelli ben raccolti, le mani incrociate a lavorare a maglia. Sul tavolo un vassoio bianco povero di frutta, le mani sono stanche, il viso è giovane ma è rassegnato. Seduta di lato, in modo precario, conserva il suo equilibrio fittizio rassicurandoci di quel suo ruolo domestico, ma lo sentiamo che è già pronta a scappare. Dentro a quel maglione rosso, così avvolgente, il corpo freme, il mattino sta per arrivare.
Degli altri maledetti, Maurice Vlaminick, Henri Hayden, Aizik (Adolphe) Feder, Marcel Gaillard, Renato Parese (René Herbert), René Durey, Pinchus Krèmègne, Celso Lagar-Arroyo, Henri Epstein, Jan Waclaw Zawadowski (Jean Zavado), Michel Kikoïne, Gabriel Fournier, Eugène Ebiche, Zygmunt Landau, Isaac Antcher, Jean (Jésus) Hélion, Thérèse Debains, Raphaël Chanterou, Aron Dejez, Léon Solà, apprezziamo nature morte, paesaggi celesti, oppure fangosi, case svuotate, velieri nella tempesta e donne che non si lasciano impossessare. Di Gabriel Fournier colpisce in particolare un altro “Nudo stante”. Una donna intenta a lavarsi in una tinozza. Si lava il seno mentre la stanza dietro alle sue spalle bianche si tinge di rosso fuoco, forse per il pudore, anche se nell’altra mano lei tiene un telo di lino ma senza mostrare la premura di volersi nascondere. Questa nudità non lascia sospetti, c’è l’armonia della sicurezza di sé, della forza della propria seduzione, della bellezza che tratteniamo dietro l’abitudine quotidiana e semplice del lavarsi.
Poi finalmente siamo a Modigiani e Soutine. Di entrambi abbiamo la fortuna di ammirare diversi dipinti bellissimi. Di certo fra quelli di Modigliani: il “Ritratto di Soutine”, in quella sua posizione impacciata con le mani che sfregano i pantaloni nervosamente, perché non vuole restare; “Elvira con colletto bianco”, figura luttuosa stabilizzata come un’icona, ma tradita dal gesto delle mani che ci parlano di quella morte; ma soprattutto il “Ritratto di Jeanne Hébuterne” messa di lato su di una sedia, la gonna rossa e i capelli raccolti in una forma conica presa da altre culture. Poi la “Bambina in abito azzurro”, uno dei pochi capolavori dell’artista in cui si vede uno sguardo. Ma l’immagine è desolante, di vuoto e mortificazione, con quegli stivaletti neri, costretta a restare in un angolo. Le mani conserte e gli occhi trasparenti appuntiti, il fiocchetto nei capelli come ipocrisia, un’innocenza assediata, con le guance rosse perché in imbarazzo.
Di Soutine gli animali morti e appesi, le scale fatte di sangue, ma in particolare “La pazza”, “La donna in verde” e “La bambina col vestito rosa”.
“La pazza” è sicuramente il quadro più suggestivo di Palazzo Cipolla. Sono sempre le mani a parlarti dell’ansia, dell’irrequietezza del vivere, gli occhi invece sono opprimenti, gli occhi e le mani insieme, l’agire inconsulto e il morire, che ci dicono che è pazza prima di leggerlo sul piccolo foglietto accanto. Poi vedi il verde dietro le spalle, i capelli costretti in un ordine prestabilito, con quella riga in mezzo che divide la figura in realtà e follia, le labbra rosse che cercano ancora cibo, parole, amore. Disposta seduta, ma si vede che ferma non vuole restare, sta per attentare alla tua mente. E tu lo sai che può fare un salto dentro di te e così annullarti. Questo è Soutine, ti ingombra dentro di emozioni ingestibili. Stai lì per scappare, ma poi il suo disprezzo riflesso ti insegue di spalle.
“La donna in verde” è insolente, con quella sua posizione ostentata, ma gli occhi sono sfuggenti e soli. Nell’angolo di una solitudine accettata e sistemata.
“La bambina in rosa”, diversamente da quella di Modigliani, è fremente, incattivita. Scarponi invece che stivaletti, il nero assoluto alle spalle ha deciso già che quella esistenza è sconfitta. Perciò le mani si danno coraggio l’una con l’altra, prendendosi insieme e decidendo la forza di questo quadro. Lei resiste alla vita anche se è già inesorabilmente finita. Gli occhi sgranati guardano con sdegno. Non desolazione, ma umiliazione a cui ci si ribella. Il vestito, la pelle, il volto, tutto è dello stesso colore rosso sbiadito in quel rosa voluto, ma gli occhi sono cupi, indagano e giudicano per quell’imposizione della sorte.
Già finito il percorso vorresti subito ripercorrerlo. Pertanto non perderti queste emozioni. I “maledetti” rimangono in allestimento soltanto fino ad Aprile.