Mio dolce amore fuggi pure, ma ti prego rallenta la tua corsa ed io ti prometto di rallentare la mia...
(Ovidio)
Se non puoi essere la sposa mia, sarai almeno la mia pianta. E di te sempre si orneranno, o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la faretra; e il capo dei condottieri latini, quando una voce esultante intonerà il trionfo e il Campidoglio vedrà fluire i cortei...
(Ovidio)
Prima di introdurvi alla Mostra per immagini organizzata dall’UDI (Unione Donne in Italia), alla Casa Internazionale delle Donne di Roma fino al 30 settembre, che racconta la storia del fenomeno della violenza in Italia dal 900 al 2000 (più di un secolo), ho la necessità di spiegare cosa mi ha mosso questa volta, emotivamente, in tempo di pandemia, e non solo come giornalista (sicuramente come donna), verso questo percorso visivo nella storia e fra le leggi di quanto accaduto alle donne in Italia dal Regio decreto sulla Riforma Gentile sulla scuola (che escludeva le donne dall’insegnamento) del 1923, fino all’approvata convenzione ILO (contro le molestie sessuali nei posti di lavoro) dal Parlamento italiano, del 2020.
Non mi ha mosso più la rabbia, l’indignazione, la ribellione che mi riconosco da sempre verso ciò che accade alle donne da quando sono al mondo, a me e a quelle che mi stanno intorno, e neanche ho avvertito quella oscura, occulta, rassegnazione che ormai mi fa fare le cose comunque, ma per inerzia, solo per senso civico radicato, solidarietà dovuta, istinto mediatico a prendere parte nei confronti (conflitti) culturali, a dire la mia, a considerarla ancora un’opinione da esprimere e da far arrivare nel mondo a qualcuno.
Mi ha mosso invece una profonda e incurabile tristezza, depressione, malinconia. E oramai è per tristezza che scrivo (o spesso non scrivo). E perciò mi chiedo, si può scrivere “per” tristezza? Può questo stato d’animo, questo coinvolgimento portare a dare il minimo di qualcosa di buono con i mezzi che meglio si conoscono, le parole? Parole troppe volte piegate, da me stessa, irrigidite, incomprese, da me stessa, a cui non di rado gli altri restano indifferenti, se non travisano, manipolano, processano con approssimazione?! Parole di donna oltretutto, e non vi sembri vittimistico, parole che hanno sempre faticato a essere comunque, a trovare un loro posto nella dialettica comune, per il solo fatto che provenissero da me, una donna appunto, come tante.
E no che non è pedante spiegarvi questa mia motivazione, lo dovete sapere perché uno (e una donna) scrive…cosa passa! E perché riesce a continuare a scrivere, come in questo caso, o invece ci rinuncia.
Non vi nascondo che con questo mood spesso preferisco buttare in mezzo ai social due o tre pensieri scaduti, che pure hanno un migliore effetto, piuttosto che strutturare un articolo, studiarne le premesse, arrivare a delle conclusioni che siano soprattutto oneste intellettualmente.
E non vi sembri uno sfogo, perché è la causa stessa della Mostra questa mia difficoltà di espressione e questa mia tristezza…o scriverne invece per un ideale comune rinnovato.
Avevo avvertito che il tempo sociale pandemico avrebbe avuto conseguenze invisibili devastanti (e certo anche per chi deve, vuole dire la sua) e avevo già cercato in tutti i modi e nel mio campo di azione di avvertire più gente possibile dei rischi relazionali/sociali che stavamo correndo, ma niente, non c’è stato verso, e in alcun modo, di riuscire a dare la portata per esempio del fenomeno femminicidio in questo nuovo contesto, e non solo, in un tempo in cui, giustamente, morire soffocati è per tutti peggio che morire solo perché donne (soffocate comunque).
Poi sono ritornati i talebani a Kabul; da noi sette donne sono state uccise in sette giorni; una giornalista riconosciuta ha sottolineato maldestramente che le donne possono essere diventate (o forse lo sono sempre state?) “esasperanti” nelle relazioni di coppia, e questa, a suo “ben vedere”, potrebbe essere di certo una causa alla morte, che perciò va considerata; la ragazzina italiana (non pakistana) di cui non si trova il corpo è stata uccisa in Italia e adesso i “presunti” colpevoli (pakistani) non sono più in Italia a rispondere in un processo italiano della morte di un’italiana che gli italiani stessi non vogliono, si rifiutano di riconoscere come italiana.
L’evidenza è che dobbiamo proprio ricominciare tutto daccapo! Capite la stanchezza fisica e mentale di fronte a tutto questo regresso culturale da recuperare?! A questo punto anche in termini globali.
E allora la Mostra: le immagini plastiche delle fatiche di un secolo che non vanno vanificate, i manifesti di rivolta contro le ingiustizie subite, la richiesta di leggi cristallizzata nel tempo a tutela delle donne e per l’ottenimento di nuovi reati a condotta sfumata.
Io voglio esserci ancora, e perciò ci sto mettendo il doppio della forza, in ragione della mia depressione, e anche di questo Long Covid.
Se a Kabul le donne si fanno ammazzare, se una ragazzina si fa ammazzare dai genitori, se sette donne si fanno ammazzare dai compagni per difendere il loro essere donne libere, io devo per forza scrivere, pur facendo il minimo di quello che posso fare (e forse ognuno dovrebbe ragionare così).
La Mostra ha come suo motivo di introduzione, non a caso, il mito di Dafne e Apollo. Dafne che chiede di essere trasformata in un albero di alloro (sacro) pur di non essere stuprata, un albero che però non può più muoversi, fermo per sempre nel suo stato malinconico di albero (malinconico specie di questi tempi, anche a causa di certe amministrazioni locali, perché anche la decapitazione degli alberi odierna è legata alla violenza, tutto è collegato, non vi sembri una forzatura, una metafora strumentale. Non solo le donne anche gli alberi/sacri vengono uccisi).
Apollo era attratto da questa bellezza viva, ma la trama vuole che Cupido volesse mortificarlo usando una freccia d’amore rivolta a lui e una freccia di rifiuto rivolta a Dafne. Come nell’immaginario collettivo: l’amore non corrisposto e fatale giustificherebbe i raptus e i momenti di follia “amorosa” (e mi viene in mente la giornalista) e sarebbe, sempre per quell’immaginario, anche la giusta causa (“se l’è cercata”) alla metamorfosi dell’essere donna.
Quando sta per acchiapparla e stuprarla (perché stuprarla è il suo desiderio), Dafne chiede al fiume di diventare un albero. Vivere in un’altra forma (dalle metamorfosi di Ovidio, se non di Kafka). E bellissima è l’immagine del Bernini (esposta a villa Borghese) in cui lei di spalle alza le braccia come rami, “soffocando” in quel momento in un urlo contemporaneo (antesignano rispetto a quello di Munch, e finanche più contemporaneo perché di donna, a indicare un suo esistenzialismo specifico di genere) la disperazione a non poter più essere donna ma altro, anima e non più corpo.
Questa l’intuizione più convincente della Mostra, rifiutarsi a questa quieta metamorfosi in qualcosa di inerme, vietarsi alla normalizzazione di genere. Ogni donna è una donna persona.
Poi, a esplorarla, si declina in un percorso prettamente descrittivo che può anche non arrivare del tutto se non si va li con uno stato d’animo preciso, che è quello di sapere cosa è successo cronologicamente, passo passo, in un secolo, per recuperare quell’istinto sociologico alla rivolta.
I pannelli esplicativi, corredati di spiegazioni divulgative e immagini emblematiche dei momenti storici passati, non tirano dentro come dovrebbero, diversamente i manifesti d’epoca che però sono stati appoggiati sui tavoli senza avere la giusta “collocazione” visiva.
Se però si ha la pazienza di leggere tutto, per ogni pannello, 20 in tutto, con Qrcode per approfondire gli argomenti, accessibile a tutti, si ha una visione complessiva della violenza maschile, dal mito alla cronaca, attraverso la storia, con precise immagini di lotte d cambiamento contro violenza, stereotipi e pregiudizi.
L’intenzione è di raccontare soprattutto ai giovani cosa è già successo per capire cosa ancora purtroppo succede, e dare loro gli strumenti conoscitivi minimi necessari per leggere la realtà dei diritti e capire come si è arrivati a difenderli e perché vengano però messi nuovamente in discussione. (A questo scopo avrei messo meglio proprio i manifesti, i più suggestivi e d’effetto per attirare un giovane a riscoprire l’azione e la ribellione).
Consiglio di andare a fare quel percorso perché tanti di quei fatti si sono già persi nella memoria, e avere un luogo invece dove tutto è messo insieme, dalla prostituzione di stato alla pubblicità dove i corpi femminili vengono considerati oggetto sessuale, dalla legge sull’aborto agli atti persecutori di ex per storie d’amore finite di cui gli uomini non si capacitano è importante proprio da un punto di vista sicuramente conoscitivo per non ripetere l’esperienza dei “talebani” anche qui da noi.
Mostra: 10-30 settembre 2021 – ex complesso del Buon Pastore, Via della Penitenza 37 Roma (II piano)
Chiara Merlo