"...simu nti i guai, nue un simu nti i guai, e chi n'è nti guai? Nessunu!" (piccolo dialogo del film)
Una delle frasi che accentra tutto il significato di questo lavoro di ricerca in questo film, che ha vinto a Cannes, alla Quinzaine, e che vuole essere un po’ documentario, un po’ thriller (per quei tratti inquietanti psicologici e di mistero), e un po’ il racconto romantico di come le nuove generazioni possono cambiare il mondo, è: “…da adesso in poi quello che faccio lo decido io”, frase che la protagonista, una ragazzina di 15 anni, dice a suo padre latitante nel mentre lo stesso vorrebbe assoggettare alla sue necessità esistenziali consolidate e radicate, obbligate (e anche spiegate con fierezza alla figlia) quelle emergenti dell’adolescente, che al contrario, e in modo inaspettato, sono oppositive e ben motivate.
Purtroppo questo “no”, detto a muso duro e con una consapevolezza tirata fuori non solo dal carattere, ma da quelle stesse caratteristiche ambientali pervasive di testardaggine e indipendenza (quest’ultima sempre cercata con rabbia dai calabresi fin nell’alveo della famiglia), comporterà abbandoni e separazioni, perché il mondo dei calabresi non riesci a cambiarlo proprio lì dove ti trovi e ti vivi in maniera primordiale. Dalla Calabria, terra antica, ti devi allontanare, e devi spezzare quasi tutte le relazioni, spesso anche quelle affettive di riferimento, proprio per poter corrispondere pienamente a te stesso nel potenziale cambiamento che a un certo punto ti riconosci e che è il motore di ricerca del tuo essere o non essere.
La fierezza! In questo film arriva proprio il concetto persuasivo di fierezza che, stranamente, un non calabrese è riuscito a cogliere così interamente e che è alle radici della nostra cultura (sono calabrese!).
Il vizio e la virtù, il dramma e la nemesi di noi calabresi, sempre occupati nell’anima da forze sopraffattrici, fin dai greci, è la fierezza. Anche costretti a piegarci a chi ci comanda, siamo fieri, ci togli la dignità, siamo fieri, umiliati, restiamo fieri. Proprio non ce la togli la fierezza, anche quando sembra addirittura non giustificata. Nemmeno in questo secolo, l’epoca della fluidità e dell’ibrido, non ce la togli. Monolitici. Anche quando ormai i poteri occulti, la politica di facciata e asservita al malaffare, la mente criminale economica della più grande potenza globale, transnazionale, che è la ‘ndrangheta, ci hanno tolto tutto, di sicuro la bellezza che avevamo, in ogni dove e in ogni come, offesa in ogni dove e in ogni come, noi, inutilmente, quasi rasentando il ridicolo, restiamo aggrappati a quella che è ormai la nostra maschera di orgoglio in una smorfia, in un ghigno, quell’antica fierezza (dal dizionario: consapevolezza e coscienza della propria forza, superiorità, personalità, chiaramente evidenti nell’atteggiamento e nel comportamento. La fierezza del temperamento).
Chiara è fiera, cavolo se è fiera, ed è chiara nei suoi “no” (nomen omen).
E la ‘ndragheta non chiamatela mafia. È un sistema sociale. E ha tutta una sua origine, una sua espressività proprio nella famiglia calabrese, nel suo schema di ruoli e relazioni, degenerata in clan, all’interno di una società orizzontale, ereditata dei greci, al servizio però, ora, non più del bene comune, ma del male comune. Orizzontalizzazione del male, dove tutte le classi, e in particolare i proletari, soffrono la stessa imposizione: l’arricchimento ingiustificato, il desiderio dell’arricchimento ingiustificato.
E la bruttezza, l’orrido, sono subito liquidi e fastidiosi (particolarmente per me!) nelle scene che raccontano questa piccola storia e questa misera terra (ed è inutile e provocatorio che i rappresentanti di regione non vogliano farsela raccontare così, come si evince dalle interviste fatte agli stessi dopo il film).
Il mare che si vede, in continuazione, fra i frammenti di lungomare vecchi e rosicchiati, lerci, essi stessi sobillatori di rivolta, che mi spingono alla rivolta (Gioia Tauro, il porto, avete presente? Dove arrivano i carichi di droga per tutta l’Europa e che non deve avere niente di accattivante, corrispondere invece all’isolamento e al degrado, al brutto e al ripugnante), è proprio la realistica versione, nei suoi aspetti più malinconici, de “il mare di ghiaccio” (conosciuto anche come “il naufragio della speranza”), il quadro di devastazione idealistica del pittore Friedrich, massima espressione del romanticismo.
E qui, in quest’angolo di mare tutto crollato, sporcato, ingrigito, anche d’estate, per i metalli e il cemento in rovina e in accumulo, è proprio una famiglia affiliata alla ‘ndrangheta che viene raccontata con le sue dinamiche di prevaricazione e incoscienza. Anche quotidiana, anche nel gioco. Urla da tutte le parti nel soggiorno “smettila, finiscila, falla finire”.
Strano che questo giovane regista, di madre afroamericana e padre di origine italiana (milanese/romana), dal Bronx abbia deciso di spostarsi fin nel sud d’Italia per raccontare la difficoltà degli adolescenti, di una ragazzina, a capire e a decidere cosa fare di fronte a situazioni molto pericolose e vittimizzanti, situazioni davvero molto più grandi di loro e decisive per la loro vita e l’esistenza nel mondo. E il fatto di non accettarle, quelle condizioni, ha capovolto proprio nel film ogni interpretazione facile che si fa a livello sociologico della trasmissione dei valori ‘ndranghetisti all’interno della struttura familiare calabrese (la ndrina appunto, che è la forza stessa della ‘ndrangheta). Forse perché qualcosa può sempre rompersi, qualcosa si sta rompendo, e quella monolitica struttura familiare andando in pezzi, potrà forse restituirci dei meravigliosi individui.
Questo lungometraggio è la terza parte di una trilogia, composta dallo sceneggiatore e regista Jonas Carpignano, che da dieci anni vive a Gioia Tauro, e sembra rappresentare, nella stessa ricerca che fa negli involucri della ‘ndrangheta calabrese, un interessante punto drammatico di svolta. Rompere lo schema familiare. C’è una grande maturazione rispetto agli altri due film, e credo si debba rapportare a quella sua stessa integrazione nell’ambiente sociale che descrive.
E pensare che Jonas Carpignano se n’è venuto in Calabria per fare una ricerca sulla rivolta di Rosarno…ha trovato quegli stessi calabresi carnefici e vittime, piegati e piagati, assai spesso inconsapevolmente, e non in rivolta. Dirompenti le scene violente con gli “zingari”, le uniche scene che non sono solo psicologicamente violente. Chiara aggredisce una sua coetanea “zingara”, perché si permette di condividere con lei quella brutta immagine di lungomare che secondo lei comunque le appartiene!
La forma dell’inquadratura è quella di restare attaccato alle persone, addosso ai personaggi, pur rischiando delle “sporcature” dell’immagine, così come gli viene fatto notare dai giornalisti nelle interviste dopo il fim, inquadrature che vogliono dare il senso del caotico contestuale, dice il regista, e diverse quando invece si concentra sul mondo interiore e sulle riflessioni che devono arrivare attraverso l’avvicinamento degli occhi alle espressioni del viso.
Insomma è un film carico di cose, sia come documento, sia come punto di vista che come regia. Jonas è un regista che sta lavorando bene, a mio parere, nel racconto di queste realtà marginali, diventate cosi eccedenti nella rappresentazione quotidiana di quelle zone del Sud, realtà marginali tutte ben collegate e incastrate fra loro!
Anche la scelta degli attori è molto significativa, tutta una famiglia del posto, la famiglia Rotolo, la stessa Chiara, Swamy Rotolo, portano in scena la loro realtà di affetti e dinamiche. Molto bravi per dover essere al tempo stesso realistici e convincenti. Attori nelle loro stesse vite.
Chiara Merlo