E’ soprattutto in prigione che si crede a ciò che si spera.
(Honoré de Balzac)
La XXVII edizione del MedFilm Festival (il Festival della Capitale dedicato alle cinematografie del Mediterraneo) ospita al suo interno alcuni film speciali nella Sezione: “Voci dal Carcere”.
Oltre al lungometraggio “Rebibbia Lockdown” di Fabio Cavalli, documentario che racconta l’esperienza vissuta da quattro studenti universitari con un gruppo di detenuti del reparto di Alta Sicurezza di Rebibbia di Roma, vengono presentati quattro preziosi tra mediometraggi e cortometraggi: “Ciò che resta – appunti dalla polvere” di Enrico Casale, Renato Bandoli; “Stabat Mater” di Giuseppe Tesi; “Voliera” di Vittoria Corallo e “Buio” di Giulio Maroncelli.
“Ciò che Resta” è stato realizzato con i detenuti della casa circondariale di La Spezia nell’ambito della seconda annualità del progetto “Per Aspera ad Astra – Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” ed è stato promosso su tutto il territorio nazionale da Acri e sostenuto da 10 Fondazioni di origine bancaria, tra cui Fondazione Carispezia.
È un mediometraggio dalla simbologia molto interessante, e la fotografia, la regia, sono di pregio. Uomini con le valigie cercano loro stessi nella polvere di edifici semiurbani abbandonati. Semiurbani perché ai margini, in una quasi periferia che sembra campagna, o in una campagna devastata da luoghi di frontiera già crollati prima ancora di essere inseriti in un piano architettonico funzionale. Sono in ogni caso l’avamposto di zone residenziali senza senso, oltre il cuore, quella parte della città da sempre slabbrata e spersa. Sono quei luoghi dove spesso si trovano anche i cimiteri, lontani dalle luminarie del centro. Qui dove tutto crolla viene richiamato il Teatro! Il Teatro che salva, in ogni caso, in ogni luogo.
Questi uomini salgono e scendono per scale approssimative e pericolanti, non certo come quelle di Escher strutturanti pensieri complessi. Qui tutto sta per cadere e il racconto rimane sempre sulla soglia di qualche dirupo di cemento all’interno di case nuove e abbandonate, ancora prima di essere finite.
Ma il carcere forse è questo, un luogo semiurbano, abbandonato appunto, non finito, ancora in costruzione e già in rovina, ai confini di ogni migrazione mentale. Un luogo dove tutto dovrebbe essere inserimento e invece è separazione, dovrebbe essere “trattamento” e invece è emarginazione. Un luogo di confine dove spesso vengono messi i fili spinati, perché non è possibile spostarsi oltre. Passare dall’altra parte.
Parole molto suggestive, immagini poetiche, un bel lavoro con i detenuti. Forse un po’ ripetitivo a livello concettuale, e questo lo ha reso un mediometraggio per insistenza. Sarebbe stato più d’effetto come “corto”, e il messaggio, paradossalmente più esauriente. Lo avrei lasciato più vischioso e denso, da colare lento, come l’inchiostro di certe immagini, nella mente ottusa di chi non sa. Non tutto va troppo esplicitato, diluito. Perde aderenza.
L’altro mediometraggio “Stabat Mater” è ancora più drammatico e intenso. Con l’interpretazione, insieme ai detenuti, di due bravissimi attori (che adesso stimo di più per questa specifica aspirazione sociale del loro prezioso lavoro: Melania Giglio e Giuseppe Sartori).
Liberamente tratto da un testo di Grazia Frisina, con la regia di Giuseppe Tesi (aiuto Regia: Giuseppe Sartori; direttore della Fotografia: Riccardo De Felice e musiche: Marco Baraldi), è il primo piano di “una madre dolorosa” che accarezza il figlio morto detenuto.
E come ascoltando Dvorak, in questa preghiera struggente, di Maria che muore d’angoscia durante la crocifissione di Cristo, Melania Giglio interpreta una donna pop(olana), con i boccoli biondi, travestita di nero, e da antica e scomposta nobildonna, per il suo lutto improvviso, incompreso, incompreso come è per ogni morte di figlio. Le lacrime scendono lente su quel suo bel dolce viso contemporaneo, nel mentre corre impazzita fra le pareti e le sbarre.
Eia, mater, fons amóris (“Oh, Madre, fonte d’amore”), ogni madre è madre di un figlio, fosse anche il più crudele, e ogni madre piange la morte di quel figlio perché è ingiusta. Il rimando sembra a tutti quelli che muoiono in carcere per una pena ingiusta non comminata, eppure eseguita: la cattiveria umana di chi ha il potere sugli sconfitti non creduti.
Dalle madri dovremmo imparare proprio quell’amore incondizionato e immanente, che dà sempre una possibilità di esistenza a tutti noi, che ci permette di riconoscere ogni volta quella possibilità di riscatto in più che puntualmente noi neghiamo.
Con questa madre c’è infatti tutto un coro di detenuti della Casa Circondariale di Santa Caterina in Brana di Pistoia, che condividono quel dolore di figli sulla loro stessa pelle. Incompresi, esprimono, ciascuno nella propria vita “segnata”, il dolore di essere morenti.
Strazianti le scene all’aperto (vagamente pasoliniane) dove la madre trascina il corpo morto a sé, verso una libertà negata che è quella di continuare. Questa madre che non riesce a seppellire, che non riesce a lasciare nel buio cupo di un sepolcro le spoglie esistenziali di chi ha generato, si ostina a lottare.
Anche per gli altri due corti è stato molto interessante indagare visioni, parole e obiettivo sociale.
Molto, molto particolare “Voliera” di Vittoria Corallo, sguardo femminile, libero, e non di maniera, né didascalico. Piccoli capitoli concettuali in cui mettere enormi messaggi. Piccoli contenitori che contengono il volo di fragili uccelli rinchiusi. Come voliere, appunto. Aperte però, a uno stile pieno e profondo che usa immagini e fermo immagini cariche di colori e simboli. La staticità e l’immobilismo servono per esprimere la costrizione, e il movimento quando c’è è come di un carillon, la cassa armonica di piccoli strumenti musicali a corde. Grandi evoluzioni in piccoli spazi, tempi ristretti per eternizzare il senso della vita. E ironia, tanta ironia! Inquadrature di uomini trascurati e sciatti sotto ombrelloni da spiaggia messi in salotto, con prati finti e annaffiatoi, perché la vita è sempre e solo rievocata, da ognuno. Neon freddi fanno la luce. e poi dialoghi scomposti, di ricordi a frammenti, di amori perduti o abusati, in stanze beige sbiadite, sono il rumore di questi piccoli grandi squarci d’immagine.
Infine “Buio”. Bianco e nero, pareti che si stringono, volti che si sovrappongono, sbarre come frame di ogni contatto visivo. Un bellissimo lavoro di Giulio Maroncelli. Da un progetto teatrale, gli attori-detenuti che hanno individuato “nel mare il paesaggio interiore che li accomuna, come luogo archetipico dell’infanzia e dimensione oscura del presente”.
Già vincitore del Premio Menzione Speciale della sezione “Cinema Giovani”, alla terza edizione del “LiberAzioni Festival a Torino”, il cortometraggio BUIO è stato prodotto da Fort Apache Cinema Teatro.
Come in un sottomarino, questi uomini usano reti metalliche per raccogliere scarti, metafora di loro stessi. Scarti di uomini sopravvissuti che vengono ripescati e gettati in una stiva ad aspettare…
È il lockdown forse che ha portato più attori e più registi a lavorare in carcere, per i detenuti, con i detenuti, come qualcuno ha ammesso nella piccola introduzione dei corti all’interno del Festival, e a me sembra una cosa veramente positiva, una di quelle cose positive che voglio attribuire a questa tragica nuova visione della vita “ristretta” e conflittuale, tra buoni e cattivi, dove i detenuti purtroppo, ancora una volta sono stati esperienza estrema di sopportazione e degrado, gli ultimi che più di tutti subiscono i fenomeni sociali che ci mettono alla deriva.
Chiara Merlo