La ragazza seduta due tavoli appresso al mio, tiene in mano un hot dog. Ha gli occhi socchiusi e un sorriso che appena può si apre per il primo morso e, mentre lo fa, li chiude lentamente. La salsa esce dai bordi, cola sulle mani e intorno alla bocca. Si sporca, ma non gliene frega assolutamente niente. Resta ferma un secondo per la sorpresa, attende che i recettori delle papille gustative diano la risposta che il suo cervello aspetta da quando si è messa seduta. Poi, mentre le endorfine entrano in circolo, fa lievemente di sì con la testa, gli occhi restano chiusi ancora alcuni secondi e solo allora la vedo cominciare a masticare, mentre il poco rossetto che le è rimasto sulle labbra disegna piccoli otto nell’aria. Muove la bocca lentamente e poi, sempre più velocemente, aumenta il ritmo in morsi avidi e ripetuti. Accelera e rallenta, comanda un gioco che conosce bene, poi, succhia dalla cannuccia qualcosa che fa andare su e giù la sua gola con la testa appena reclinata all’indietro. Per duecentoquaranta secondi si dimentica che è lunedì, dello stronzo che le ha dato buca, della sua casa che puzza di muffa, del lavoro che le dà il voltastomaco e di quello che resta dei suoi fianchi appoggiati su quello sgabello cromato. Duecentoquaranta secondi. Gli ultimi due morsi che restano sono quelli in cui non chiude più gli occhi, ma fissa quello che rimane del suo pranzo sulla punta delle dita che infila in bocca e succhia facendo uno schiocco divertito con le labbra. Beve ancora, mentre sento il risucchio della cannuccia che cerca di pescare inutilmente qualcosa in mezzo al ghiaccio. Duecentoquaranta secondi. Poi, si pulisce le dita con un tovagliolo.