Non chiedo ricchezze, né speranze, né amore, né un amico che mi comprenda; tutto quello che chiedo è il cielo sopra di me e una strada ai miei piedi. (Louis Stevenson)
Un tappeto e un attore. Secondo Peter Brook basta questo per fare teatro. Giuseppe Cederna se l’è cavata alla grande con poco di più: tre sedie, un ciottolo di mare, una sciarpa tibetana, un piano d’appoggio, un libro di quelli belli, che sembrano tirati giù dallo scaffale di una vecchia biblioteca, probabilmente illustrato, anche se le immagini non ci è dato vederle.
Ha scelto un classico tra i classici della letteratura per ragazzi e ha provato a raccontarlo ai ragazzi di tutte le età, intrecciandolo con la vita di chi lo ha scritto e anche con la sua. Ecco allora che L’isola del tesoro e i viaggi e le avventure di Louis Stevenson si sono fusi con la vita di un attore in tempi di pandemia, che sognava di uscire di casa, salire su un aereo e finalmente fuggire per raggiungere la sua amata isola del tesoro.
Un isoletta greca dove Cederna e la sua compagna sono di casa, o meglio, di terra.
Perché è lì che hanno imparato a falciare il grano e a lavorare la terra.
È stato il modo di ricambiare l’ospitalità di una famiglia di contadini che li ha ‘adottati’, offrendo loro la stanza da letto della figlia maggiore, senza pretendere nulla. Ed è su quell’isola, stanco come un novello attor-contadino e accaldato dal sole di mezzogiorno, che ha partorito l’idea di questo spettacolo. Un suggerimento nel sonno, forse, un’indicazione provvidenziale di quelle che però bisogna saper cogliere al volo e Le isole del tesoro è già lì dietro l’angolo, tra una piccola isola greca che comincia con K e l’Italia che sta riaprendo i teatri e prova ad alzare il sipario su tanti monologhi maturati in clausura.
Cederna, diretto da Sergio Maifredi, ne racconta la gestazione in una sorta di teatro nel teatro che pare improvvisato lì su due piedi. Ma anche questa è strategia d’attore che sa il fatto suo. Come lo è l’interlocuzione col pubblico, senza ammiccare e senza invadenza, in modo simpatico, ironico e lieve.
“Va bene, ve la ripeto”, dice alludendo a una battuta, e lo fa per lanciare un amo al pubblico del Teatro Vittoria di Roma, dov’è in scena fino a domenica 30 gennaio.
Varrebbe davvero la pena fare un salto a Testaccio, in quel bel teatro dov’è in atto una strenua resistenza, e godersi un’ora e un quarto di parole ben dette, piccole e grandi storie di vita di ieri e di oggi perfettamente accordate, tra un passo e l’altro di un grande classico che non fa mai male rispolverare.
Il discorso fluisce portando dentro la bellezza onirica che ha sorretto la vita del piccolo Stevenson, costretto al letto da una fragilità polmonare che non lo avrebbe mai risparmiato – lenzuola che diventano mari e pianure e isole lontane, lampioni sulla strada che diventano stelle e fari a illuminare la rotta dei viaggiatori-.
E tra un ricordo personale e un affondo nell’avventurosa e travagliata biografia dell’autore, che nonostante la malattia ha caparbiamente viaggiato, amato, adottato il figlio della donna che ha voluto sposare, i passi più belli del libro prendono corpo come se fossero su un piano inclinato che permette a noi e all’attore di scivolare con naturalezza dalle pagine alla vita di oggi.
Basta una parola, sorta di testimone a cui agganciarsi per restare a galla nel flusso: per esempio la ‘terra’ avvistata da Long John Silver mentre il piccolo Jim è nascosto in fondo al barile di mele, che qui diventa la terra dell’isola greca dove Giuseppe ha imparato a falciare con tre movimenti veloci e precisi. E grazie alla falce ha visto “il chicco di grano trasformarsi in pagnotta”.
A proposito del suo ingaggio nell’isola, come contadino e non solo, il racconto si fa assai divertente, ma no spoiler, andate a teatro.
(la foto in evidenza è di Massimiliano Valle)
di Alessandra Bernocco