Se è assolutamente necessario che l'arte o il teatro servano a qualche cosa, dirò che dovrebbero servire a insegnare alla gente che ci sono attività che non servono a niente, e che è indispensabile che ce ne siano.
(Eugene Ionesco)
Un deposito sterrato, pareti scrostate, umidità, muffa, sedie rotte accatastate, una finestra da cui filtra una luce grigia, compatta, tre sedie in centro che proiettano la loro ombra sul muro, un paio di scarpe dimenticate in mezzo al cumulo di rottame.
Insomma una scena che in un altro momento si potrebbe chiamare post bellica e invece.
Invece ti si rovescia addosso con tutto il peso di città svuotate, case crollate, gente che scappa tra calcinacci e polvere, polvere che sale, offusca la vista e intasa i polmoni.
Eppure, si sente dire, è un giorno radioso.
Infatti la platea è piena di gente e il rumore degli applausi ininterrotto.
Siamo al teatro Vascello e abbiamo appena assistito a Le sedie di Eugène Ionesco. La regia è di Valerio Binasco e in scena ci sono Michele Di Mauro e Federica Fracassi. Un terno al lotto vinto su tutte le ruote. Siamo alla fine, a pochi minuti dal definitivo congedo di due creature inafferrabili che si getteranno nel vuoto. O nell’oceano, come da testo. Lasciando la scena ancora più vuota e noi a brancolare con una voragine dentro.
“Volevamo raccontare la nostra storia al mondo”, dice lui rivolto al pubblico. “A quel che resta del mondo”, corregge subito lei. Una delle ultime loro intenzioni, mentre il mondo rotola via, in frantumi. Travolgendoci tutti, come minaccia la scena inclinata verso di noi, a ribadire la precarietà della vita e delle stesse macerie.
L’impatto è perturbante. L’angoscia di questi giorni, collettiva e contagiosa, non aiuta. O forse sì, aiuta troppo, aggiunge, stordisce, confonde i piani, reale e surreale, verosimile e assurdo.
Come l’assurdità della vita di due esseri vestiti da vecchi e malinconici clown, il volto bianco di biacca, parrucca, abito da sera o camicia da notte, boa di piume, che trascinano il tempo – e chissà quanto tempo! – in una quasi discarica come se fosse il loro habitat naturale.
Tutto è finto come il trucco sui volti, tutto è invenzione messa in atto per sopravvivere, tutto è replica e coazione a ripetere. A parte l’amore. L’amore tra due sposi invecchiati che si specchiano l’uno nell’altra, concordi nel raccontarsi quel che non c’è, nell’inscenare quello che manca e che entrambi conoscono bene perché è già stato loro, forse. Incontri passati, sfiorati, riemersi dai ricordi, desiderati e poi cristallizzati fino a farli rivivere di replica in replica.
Questa è la sensazione. Che si stia assistendo all’ennesima messa in scena prima della fine.
E ogni tanto scappa un sorriso o persino una sonora risata, tenero-amara, scaramantica. “Io ridivento nuova tutte le sere per te”, dice la donna. Mentre il discorso si avvita intorno a questioni che paiono anch’esse repertorio da macero. Da che parte gira la terra, che ce ne facciamo delle ambizioni, che noia, allora giochiamo alle imitazioni dei mesi, quali mesi.
Si attendono ospiti che non arrivano. O, meglio, arrivano ma noi non li vediamo. O, meglio ancora, li vediamo attraverso le parole dei due, le loro proiezioni, la loro rituale accoglienza, fatta di cerimonie e di codici che recitano persino l’effetto sorpresa. “Non riesco a credere ai miei occhi! Non aspettavo che te”. Ma l’idea è che ancora una volta si stia ripetendo lo stesso copione. Si dice che lui abbia qualcosa di importante da dire, talmente importante da non esserne in grado. Un messaggio pieno di ideali che evidentemente lo sopraffanno costringendolo a rimettersi a una terza persona, un oratore professionista capace di farsi non già portatore ma veicolo e amplificazione di senso, di fronte a una platea in ascolto.
Ionesco prevede il terzo personaggio, l’oratore in carne e ossa. Qui anche l’oratore non c’è e nemmeno si palesa se non nella volontà di delegarlo a portavoce. Ma il portavoce non arriva e se arriva non parla. Il messaggio resta appeso a un’intenzione, è una promessa mancata, e gli ideali, boh. Affogati nell’oceano insieme a due derelitti che ci hanno provato, a resistere, a contagiarci con la loro ‘golosità di vivere’, ma non ci sono riusciti.
D’altra parte l’oratore di Ionesco si scoprirà sordomuto, incapace di parola e di ascolto, quindi tanto vale rassegnarsi in partenza e abbandonare la folla vociante dopo averla ringraziata ‘di cuore’.
Lo spettacolo si chiude in modo fortemente emotivo, di grande lirismo, anche grazie alle luci e ai suoni: ipnotici, inquietanti, subliminali.
Una partitura perfetta insieme alle voci, ai gesti, agli sguardi che si modificano sotto gli occhi bistrati e il cerone bianco.
I costumi di Alessio Rosati contraddicono amabilmente la scena corroborando l’effetto di spaesamento di testo e regia.
Le sedie di Eugène Ionesco
traduzione Gian Renzo Morteo
con Michele Di Mauro, Federica Fracassi
regia Valerio Binasco
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Alessio Rosati
musiche Paolo Spaccamonti
assistente regia Giordana Faggiano
assistente scene Nathalie Deana
foto di scena Luigi De Palma
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Tournée:
9 – 13 marzo 2022 | Teatro Duse | Genova
15 – 20 marzo 2022 | Tearo Carcano | Milano
29 marzo – 3 aprile 2022 | Teatro Bellini | Napoli
5 aprile 2022 | Teatro Ermanno Fabbri | Vignola
7 – 10 aprile 2022 |Teatro Storchi | Modena
28 aprile – 1 maggio 2022 | Teatro Alighieri | Ravenna
di Alessandra Bernocco