«Sin dal giorno della mia nascita, la mia morte ha iniziato il suo cammino. Sta camminando verso di me, senza fretta»
(Jean Cocteau)
«La morte è il fondo scuro che serve a uno specchio se vogliamo vedere qualcosa.»
(Saul Bellow)
È liberamente ispirato a Lo cunto de li cunti di Gianbattista Basile (favole napoletane del ‘600) questo testo teatrale di Emma Dante, diretto dalla stessa in maniera magistrale. Questa scrittura e questa messa in scena mi fanno pensare che il Teatro sia puro Amore (finalmente), e consolidano Emma Dante, per me, migliore regista donna, italiana, siciliana, del mio tempo e di ogni politica, non ho alcun dubbio.
Lingua napoletana e linguaggio siciliano, buio eterno e luci sguaiate del sud, tragedia greca e sarcasmo partenopeo, umore denso e dense precipitazioni, per pieni e vuoti emozionali di solo sentimento, gesti e movimenti di culture antiche che rievocano ritorni, sperati o immaginati, voluti o temuti. Presenza e assenza in ogni parola che è memoria. E giravolte ironiche, liberatorie, dissacranti e provocatrici. Urla e silenzi, canti e balli, abbandoni e disperazione.
Questi volti spaventati, atterriti, sono di fronte a me, in composizioni visive tragiche, con smorfie di cadaveri non più modificabili ma ancora vivi, in abiti cupi e lisi che portano ancora gli ultimi respiri, e che qualche spiffero ancora agita nelle stanze, sotto le gonne, fra i capelli, nei pantaloni, mani che bianche e assolute ancora cercano di prendere il tempo perso, senza prenderlo, in volteggi, ricami nell’aria, che ci appaiono rallentati, poetici, commoventi, ma solo per la nostra percezione interiore, e già ci affliggono, linee trasversali di ingresso ai personaggi, che così ci attraversano in diagonale, come i ricordi e gli umori, e ci trafiggono dalla stessa parte mentre ci guardiamo avanti, o indietro, nei momenti più inaspettati della nostra vita, lungo traiettorie che sono quelle delle dinamiche familiari, da tutti riconoscibili.
Mentre la solitudine è frontale, e continua a guardarci come uno specchio, statica, offensiva, reclamante, assillante, inequivocabile, e ci guarda e ci accusa, e vorremmo girarci e guardarci appunto alle spalle, come in un’ossessione ansiosa di colpa, di lato arrivano fitte intense di fallimenti e abusi, nostri o assistiti, che ci hanno reso così deboli e infelici e adesso quasi inermi o pietosamente zoppicanti. Vivi e morti della nostra vita, e della nostra stessa morte, tutti richiamati in una notte, quando il transito in ogni altrove è anche il nostro: il 2 novembre, la festa dei morti.
C’è un espediente registico usato che per me è molto evocativo, e significativo, l’ho rivissuto immersa in questi attori, mossi come i miei parenti dentro di me. Ci sono attimi, appunto vissuti dentro, in cui mi concentro così tanto sulla mia vita andata, quando sono o resto da sola, o mentre aspetto, nei quali sento disposti proprio dietro la mia presenza, a guardarmi in ogni atto, tutte quelle persone che ho perso e che vorrei, o non vorrei, ancora con me, anche quelle odiate. Spesso mi succede in macchina, mentre guido in posti isolati, di notte, dal teatro verso la periferia di questa grande città, e vedo nello specchietto retrovisore (non a caso), al buio, senza altre macchine, i miei morti seduti nei sedili posteriori, e quell’immagine mi è riapparsa ora…deliri notturni che vorrebbero farmi sbandare, non arrivare, interrompermi nel percorso, oppure che mi accompagnano verso casa rassicuranti.
Questi morti si aggiungono dietro di noi uno alla volta, mentre muoiono, o mentre moriamo, quando il tempo passa, e guardano insieme a noi ciò che ancora accade, sono il nostro esercito delle emozioni, noi in prima linea, un esercito alle spalle che spesso ci fa perdere, perché ci blocca, ci tira per i capelli, ci trascina via, altre volte ci dà la forza per affrontare “i cattivi”. E mi vien in mente un film della stessa Emma Dante, Via Castellana Bandiera, nella scena finale…dove la strada che sembrerebbe ancora abitata da tutti i protagonisti e dalle liti, invece è restata vuota, come il pensiero dopo aver ricordato tutte quelle scene più care della nostra esistenza, oltre ogni conflitto.
E poi ci sono gli oggetti simbolici di scena: le bambole di ceramica con i capelli nerissimi, le bambole da comò inquietanti vicine agli specchi, i pupi, i capelli dappertutto, scompigliati, i vestiti a palloncino, neri, le camice da notte pastello di donne innocenti che hanno fatto una brutta fine, e i panciotti grigi di uomini troppo sicuri, i letti disfatti e riaggiustati e le coperte di fattura popolare, le grate per gabbie mentali, i cancelli dei cimiteri e le croci delle processioni, i cadaveri appesi e spenti come fantocci senza senso, che siamo, i lumini e i rosari, il tavolino dove comunque si preparano i dolci e questo pupo di zucchero, fatti con la farina e il lievito…per la festa dei morti, per le ritualità dei nostri giorni.
C’è un uomo diventato vecchio che non dorme più e sogna cose passate, vite di altri, le sue tre sorelle, Rosa, Viola e Primula, i loro amori, il tifo che le ha fatte morire, il loro padre marinaio che felice tornava dal mare fino a che non è tornato più, e la loro madre ingobbita dal tempo mentre ha aspettato ogni giorno sulla riva, la zia Rita picchiata a sangue dallo zio Antonio, finalmente uccisa, Pasqualino, l’orfano accolto in quella stessa casa come un piccolo fratello lontano. Le scene quotidiane, le abitudini dei gesti, le sorelle che cantano e ballano selvagge sui pavimenti freddi, gli innamorati, Il via vai della vita che mai se ne va per davvero.
E questo Vecchio ora è solo insieme a questi suoi fantasmi che lo agitano e non lo fanno dormire, mentre lui prepara il rito della festa, e il pupo di zucchero, prima di andare a salutare i morti al cimitero. Ma il pupo non lievita…
Questi attori sono straordinari, tutti. Carmine Maringola nei panni consumati del Vecchio, il protagonista assoluto, Nancy Trabona (Rosa), Maria Sgro (Viola), Federica Greco (Primula), Sandro Maria Campagna (Pedro), Giuseppe Lino (Papà), Stephanie Taillandier (Mammina), spettacolare, Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout (Pasqualino), Martina Caracappa (zia Rita), Valter Sarzi Sartori (zio Antonio).
Nella mia mente c’è una corda tirata per trattenerli, tesa, che poi cede a terra vuota, senza resistenza, come se dall’altra parte non ci fosse più una barca, come se non ci fosse più il mare, questa vecchietta che arriva curva con passi svelti verso di me col suo sguardo smarrito e la sua voce elegante di uccellino a cercare ancora il suo amore, nell’aria un “ti amerò per sempre!”, il carillon delle sorelle che danzano nel vuoto intorno a me come fossero di pezza, e il ritmo dell’impasto, fiducioso, tenace, vigoroso, come dovremmo fare con il nostro impasto…nelle mani dello sconosciuto.
Le musiche strappano lacrime: Rain, in Your Black Eyes di Ezio Bosso, Sweet and Bitter di Ezio Bosso, e la Serenata di Amerigo Ciervo, cantata dal vivo.
Anche i costumi sono di Emma Dante, e per ogni passo si riempiono di vento. Le sculture di Cesare Inzerillo. Le sapienti luci di Cristian Zucaro.
Non credo di aver visto negli ultimi anni uno spettacolo così bello e così ben curato in ogni suo aspetto e piccolo dettaglio. Spero sia di buon auspicio per tutto il teatro italiano di questi miseri giorni.
Visto al teatro Argentina di Roma.
Chiara Merlo