Pantelleria Bruciata

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D’estate, al sud, capita che il fuoco distrugga tutto, alberi e animali. Capita! Noi del sud però sappiamo che ogni incendio è per mano dolosa, per mano meridionale dolosa. Per scopi criminali di lucro, quindi non soltanto, non necessariamente, per incuria, siccità, negligenza. Spesso c’è proprio l’intenzione di distruggere. Dolo, non colpa. È successo anche questa estate a Pantelleria, l’isola dei famosi e dei radical chic. Un’isola antica, primitiva, di origine vulcanica, che il fuoco ce l’ha nelle viscere, nel cuore e nei tramonti, nera nerissima per il sangue lavico coagulato per squarci antichi da cui è costituita, e ferite sempre pronte a riaprirsi e a donare vita a frutti, pietre, fiori selvatici e soli. Nera nerissima per essere stata ogni volta carbonizzata e una volta in più ancora dall’uomo. Un’abitudine a cui l’ha costretta la natura e di cui l’uomo intende approfittarsi nei germogli e nell’annientamento dei germogli. L’uomo che mette i suoi passi in quella terra senza mai accarezzarne gli alberi gloriosi, tenaci e forti che con le loro radici resistono a tutto, ma non al fuoco.

Photographer:
Giordano affolti

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Giordano affolti

Radici che mantengono con ostinazione il luogo sospeso nell’azzurro dell’acqua e dell’aria, a due passi dall’isola più grande, la Sicilia, a un passo dal continente africano, che fra gli alberi arriva, anche quello lieve e minaccioso, col suo vento di deserti. Anche le costruzioni si adeguano a quel paesaggio così ostile e meraviglioso, si arroccano di pietre come tane sui lati della montagna per coprirsi alle spalle da ogni pericolo sempre imminente, aperte invece sul davanti per non rinunciare al paradiso delle commistioni. Appiattite tra terra e cielo per sopportarlo così denso e pieno, nel nero cupo e l’azzurro violento, il bianco delle onde e i colori accesi di limoni, fichi d’india e olive…l’argento degli ulivi che vibrano in una visione onirica e sfocata dal sole come una nostalgia. Dammusi. La terra brucia, il sole brucia, le pietre anneriscono lo sguardo…i sensi sono assediati da un imminente che insiste fino alle lacrime. E poi ecco l’uomo che distrugge tutto quello che ci commuove, già in così difficile equilibrio

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Giordano affolti

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Giordano affolti

Il fatto che là villeggino giornalisti, attori, stilisti, architetti e scrittori non aggiunge certo incanto al luogo (caso mai il luogo aggiungerà incanto al loro modo di scrivere, raccontare, inventare), ma ci assicura che quell’isola, per forza di pochi, sia un’isola di privilegiati e per privilegiati, fosse una metafora, o una constatazione realistica di una possibilità di soggiorno in un paradiso che ha superato l’inferno. E allora, se devono circolare dei soldi, più soldi, perché sia sempre più appetibile come paradiso e quindi oggetto di ricatto, è bene rendere complici dei distruttori. Complici distruttori e affaristi, speculatori e mercenari che, di quel successo della natura non hanno minimamente capito il senso: non cemento, ma alberi, e alberi non nuovi, antichi, quelli che resistendo ci hanno portato il racconto da lontano di quella stessa isola, e che per raccontarlo hanno resistito e resistito a ogni avversità perché fosse paradiso. Non capirlo è criminale. Non capirlo, per chi come quegli alberi abita quel luogo da tempo, è tragico per la loro stessa esistenza. E mentre il fuoco si autoalimentava ricordando la via già più volte percorsa, per ripercorrerla tutta nuovamente, quell’isola di crepe e ferite antiche, mentre gli alberi come cerini inutili incendiavano altri alberi fratelli, ora monolitici e fermi come impiccati, un fotografo ce ne ha voluto restituire la memoria, come i morti di una guerra, reporter di una rovinosa battaglia impari e crudele. Troppo crudele per non essere restituita ai buoni.

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Giordano affolti

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Giordano affolti

Giordano Affolti ritorna il giorno dopo, quando tutto è spento, su quel cimitero di piante, dove gli animali non respirano più, e fotografa le sculture che sono diventate per noi a ricordo. Rami come braccia che chiedono aiuto senza più foglie, tronchi morti rimasti in piedi, radici perse nel terreno senza speranza di restituire vita al mondo o agli insetti. E se le urla di emergenza arrivavano con la loro eco dalle barche dove i giornalisti, cronisti dell’accaduto, si sono rifugiati, per rendere notizia con la loro voce delusa da villeggianti, gli alberi restavano in silenzio a testimoniare il loro dolore incolmabile, quello che paralizza per sempre senza fiato. Il paesaggio è “mutato”, nel senso che è rimasto muto, dalla resistenza allo spregio, dalla vita ostinata, alla paralisi di ogni emozione anche solo voluta per gli uccelli. Poveri alberi, morti così dignitosamente come eroi, uccisi così vigliaccamente dagli indigeni.
Bellissime queste foto simbolo di Giordano.

Chiara Merlo