Noi non siamo esseri umani, l’uomo che suona il pianoforte è un prodotto artificiale, un prodotto disgustoso. In sostanza, diceva Glenn, noi non vogliamo essere uomini ma pianoforte, per tutta la vita sfuggiamo all’uomo che è in noi per diventare pianoforte
Thomas Bernhard, Il soccombente
Tre amici alla scuola di Vladimir Horowitz, a Salisburgo. Uno di loro è Glenn Gould, gli altri due no. Uno è un genio del pianoforte e, in quanto tale, predestinato, gli altri due sono tutto quello che genio non è, quindi meno predestinati. Sono quello che resta, al netto del genio, quindi potenzialmente una rosa di cose, inclinazioni, attitudini, se solo non volessero essere geni. Perché in questo caso, sono due sconfitti piuttosto ordinari. Uno dei due abbraccia la sconfitta fino a farne la sua dannazione. Fino a soccombere. È il soccombente, appunto, il personaggio che dà il titolo alla prima parte della Trilogia sulle Arti di Thomas Bernhard.
Al centro c’è il rapporto tra eccellenza e normalità, tra l’eccellenza di un genio e la normalità di un bravo pianista: la normalità non contemplata dall’arte, perché non rientra di diritto tra le possibilità dell’artista. L’artista non ha il diritto di essere normale. Anzi, la normalità dell’artista è un paradosso. Inaccettabile prima di tutto a se stesso. A maggior ragione quando il se stesso si sente schiacciato da un confronto impari e da una distanza irriducibile. Distanza non soltanto dal genio ma dall’immagine di sé che in esso tenta di rispecchiarsi, senza riuscirvi.
Il genio di Gould, per il soccombente Wertheimer, non agisce come l’eros platonico che attrae e sollecita, non come un’idea di perfezione a cui approssimarsi in modo indolore, nemmeno come la spinta ad affinare il talento. Il genio di Gould è il demoniaco eros che ha la forma di un amico rivale, l’eros che ti trascina verso il basso e ti impietrisce come lo sguardo di Medusa, rispetto al quale c’è solo l’inazione.
A raccontare la frustrazione di Wertheimer è il terzo amico, il filosofo narrante, unica voce del romanzo, che fa rivivere gli altri personaggi, compresa la sorella di Wertheimer e i mediocri colleghi di Horowitz.
Con Il soccombente siamo di fronte a un lungo e ininterrotto monologo assai difficile da immaginare sulla scena. Un testo privo di azioni da agire al presente, un flusso orizzontale che rischia (rischierebbe) di diventare una soporifera resa alle parole, restituibile con una o due note soltanto. Qualcosa che non sarebbe pensabile nemmeno al leggio.
Eppure è un testo che sfida i registi e solletica gli attori. E se qualche anno fa era toccato a Roberto Herlitzka diretto da Nadia Baldi, questa volta ad affrontare il primo atto della Trilogia sulle Arti è Federico Tiezzi e la voce narrante è quella di Sandro Lombardi.
Teatranti che le sfide le amano e spesso le vincono. Tant’è che Il soccombente arriva dopo la riuscita messa in scena di Antichi Maestri, terza parte della trilogia, che già vedeva accanto a Lombardi Martino D’Amico, riconfermato con tante buone ragioni.
Grazie a loro, a un’interpretazione simbiotica precisissima, molto giocata sui dislivelli tonali, la scrittura di Bernhard si libera dalla pagina e guadagna verticalità e consistenza, per poi rientrare nel flusso monologante arricchita di immagini, di gesti, di squarci emotivi vissuti e non solo rimessi alla narrazione. La regia trova la via giusta perché la parola sia detta, sviluppando tutti gli appigli che rendono possibile la relazione, fatta non tanto di dialoghi veri e propri traslati al tempo presente, ma di rinvii di parole e pensieri che vanno a tessere la trama, slittando dalla prima alla terza persona e attribuendo a ognuno battute recuperate alla forma diretta dall’adattamento di Ruggero Cappuccio: adattamento mirato, forse persino ripensato rispetto al precedente testo diretto da Nadia Baldi che non prevedeva la presenza di due attori in scena e a Herlitzka affiancava Marina Sorrenti.
Qui Lombardi e D’Amico sono invece affiancati dalla brava Francesca Gabucci, figura eterea che aleggia consultando spartiti disordinati sulla scena e segnando il ritmo percuotendo la cassa del pianoforte, intonando melodie e dando voce alla sorella, non solo vittima del soccombente ma suo definitivo capro espiatorio. Troppo onesto sarebbe attribuire a se stessi l’onere della disfatta: meglio lasciarsi travolgere dall’occasione più prossima, a due passi da te, quando decide di allontanarsi.
Dopo aver ben acquisito che è Gould, il genio, ad avere “ucciso in noi tutto quello che aveva a che fare col virtuosismo”.
Il pianoforte non serve più, destituito dalla sua funzione, però sta lì a dominare lo spazio di azione, dove non si agisce ma ci si sposta con indolenza da uno sgabello all’altro, senza osservarlo o trattandolo al pari di un suppellettile qualunque. Mai suonato, appena sfiorato, molesto ingombro della mente che si intromette nei ricordi e ribadisce la distanza, il timore, la capitolazione di entrambi.
Uno spettacolo da godersi fino alla fine, quando Lombardi, ormai solo in scena, è irresistibile. Mi ha ricordato Giorgio Albertazzi che di lui ebbe a dire che visto di fronte e di profilo è come vedere due attori diversi, il buono e il cattivo, il rassicurante pacifico e il demoniaco. Vedeteli entrambi.
Lo spettacolo è in scena al Teatro Vascello di Roma fino a domenica 26 marzo.
[Il soccombente di Thomas Bernhard
traduzione di Renata Colorni
riduzione di Ruggero Cappuccio
regia di Federico Tiezzi
con Martino D’Amico, Francesca Gabucci, Sandro Lombardi
scene e costumi di Gregorio Zurla
luci di Gianni Pollini
regista assistente Giovanni Scandella
produzione Fondazione Campania dei Festival – Campania Teatro Festival / Compagnia Lombardi-Tiezzi / Associazione Teatrale Pistoiese
Durata: 1 ora e 15 minuti]
di Alessandra Bernocco