La tragedia nasce quando si è in presenza di un uomo che ha mancato di realizzare la sua gioia
Arthur Miller
“Uno sguardo dal ponte” di Arthur Miller nella visione drammaturgica di Massimo Popolizio, regista e interprete di questa pièce.
A quasi un secolo di distanza, una trasposizione scenica del capolavoro di Miller nel tentativo espressionistico di restituirne nello specifico le abnormità. Così le mani, i gesti, i suoni, ossessivi, la musica del tempo, anni ‘50, accesa e spenta in continuazione (bellissima ma fastidiosa, perché troppo alta o interrotta) allo stesso modo rendono una nevrotizzazione di quel testo assolutamente in linea con l’intento dell’interprete contemporaneo, almeno così è parso: voler raccontare il possesso, ma con più morbosità, quella stessa morbosità che ci spinge, impazzimento per impazzimento, a infliggere e infliggerci atti persecutori estremi, fino all’assassinio.
È cioè un fatto esistenziale attuale, un modo che ci costringe nelle relazioni ancor oggi, o forse di più, o forse con più intensità, follia, violenza psicologica. E allora, dal contestuale di quel periodo storico, al microsociologico delle dinamiche quotidiane di oggi, specie fra uomini e donne, ma anche fra uomini e uomini. E quelle dinamiche si amplificano fino a diventare eccessive rispetto alla drammaticità delle vicende sociali raccontate che le presuppongono. Non caricaturali, come forse qualcuno ha potuto intendere, invece, spietatamente grottesche, furiose, mostruose.
Un fatto di cronaca orribile, ambientato in una comunità di immigrati siciliani a Brooklyn. Un fatto di cronaca dove il “carnefice” diventa “vittima”, e viceversa, com’è per tutti i fatti di cronaca mediati. Un fatto di cronaca che fa esplodere la realtà dell’emigrazione meridionale italiana verso l’America, lasciandola però tragicamente soltanto sullo sfondo di una società tristemente moderna.
È quel che succede in casa di Eddie Carbone, portuale newyorchese, immigrato, che vive a Brooklyn con la moglie Beatrice e la nipote diciottenne Catherine, di cui è morbosamente geloso essendosene invaghito, che ci sconvolge, che ci disorganizza gli stati d’animo razionalizzati, battuta d’arresto di un meccanismo perverso tra lavoro legale e clandestinità, povertà e alienazione, estraneità e diversità, dove, nella cattività delle relazioni umane, alla fine è l’amore che viene scambiato con l’arroganza, con la tracotanza che è conseguenza dell’oppressione, ed è l’amore che viene scambiato col, o peggio mortificato dal, cinismo del possesso, per chi quel possesso lo esercita come un potere volgare, come una rivalsa, il compenso necessario per una vita insignificante. Tu sei mia e non puoi essere di nessun altro (sì, più al maschile che al femminile, ma non necessariamente al maschile, anche del datore di lavoro sull’immigrato in nero, o delle forze dell’ordine sui clandestini) e decido io cosa farai della tua vita, e se lavorerai, se metterai quel vestito con quei tacchi che ti piacciono. E questo perché io mi sono preso cura di te, ed è solo su di me che puoi contare, e quindi “solo io posso”: occuparmi di te in questo anfratto di esistenza infelice, che ne dovrò avere il riscatto ritirandone finalmente il pegno, con la tua soggezione (a fronte della mia). Perché chi assoggetta è in effetti assoggettato!
Ma le persone che pensiamo di possedere, in realtà sono sempre fuori controllo, monadi sperse nella loro stessa vita. Perché nessuno ha la strada segnata dai propri propositi, tanto meno si possono decidere le strade da far fare, o non far fare, agli altri. Paradossalmente possiamo decidere solo la morte. E questo infatti capita nei fatti di cronaca, sintomo dei malesseri comuni.
Così il possesso è presto rotto dall’inatteso, da un terzo che rovina tutto! Dall’ingenuità che apre la porticina della gabbia senza accorgersene, e senza saperlo…di essere entrata in quella gabbia.
La trama è conosciuta e ripetuta, per i diversi modi di intenderla al cinema e in teatro (versioni italiane bellissime), ma anche perché è da sempre emblematica delle frustrazioni sociali scaricate sulle vite dei più vulnerabili, non di rado le donne, ma anche appunto i clandestini. E Miller se ne fa carico con una scrittura politica e di denuncia.
Popolozio, da parte sua, la integra in furore. Rabbia che viene espressa quanto più sembra trattenuta. Ma è nella scena del caffe che diventa focale, quando le zollette sembrano non finire, traboccare dalle tazzine come i colpi di suono che le sottintendono mentre vengono fatte cadere ripetutamente una a una nel vuoto. Come le vite. E poi in questa ragazzina che corre da tutte le parti, quasi a sbattere alle pareti, e urla una gioia isterica impedita. Un nervosismo che non trova rimedio. E in questo vecchio uomo, vecchio, tutto sbracato, rovinato dall’impossibilità, in un ghigno persistente che ci prova a sciogliere nelle risate sguaiate da barbablu, e che non ci riesce ad accettare l’amore di Catherine per quell’altro, giovane, venuto dalla Sicilia e che stranamente non ci vuole proprio tornare. Canta e balla come un americano, piroettando nell’agio che intravede, che Eddie spaccia per piglio omosessuale. E un omosessuale non può prendersi sua nipote, sua nipote ha bisogno di un uomo vero come lui, anche perché quello vuole solo le carte della cittadinanza. E allora lo denuncia e lo fa arrestare. E infine viene ucciso da suo fratello.
Tutta la scena familiare sembra costruita di lato, ma è centrale, con la credenza e il tavolo sulla destra del palcoscenico, mentre sulla sinistra si intuisce il porto con l’uso dei chiaroscuri, sempre a sinistra il giradischi…
Gli attori sono tutti all’altezza di una difficile recitazione, corrispondendo in perfezione ai gesti, agli sguardi, al profilo del protagonista, Eddie Carbone, Massimo Popolizio, superlativo, ma le due figure femminili sono state per me di una rara bellezza teatrale, in particolare Gaja Masciale nel ruolo di Catherine, anche se non sarebbe emersa senza quella misurata esperienza e pienezza di Valentina Sperlì nel ruolo della moglie, Beatrice Carbone.
Tutto mi è sembrato attuale proprio nell’apparente alterazione dei toni.
Visto al Teatro Argentina di Roma
di Chiara Merlo
[Uno sguardo dal ponte
di Arthur Miller
traduzione Masolino D’Amico
regia Massimo Popolizio
con Massimo Popolizio,
Valentina Sperlì, Michele Nani, Raffaele Esposito, Lorenzo Grilli,
Gaja Masciale, Felice Montervino, Marco Mavaracchio, Gabriele Brunelli]