Elsa Morante: la letteratura in scena. Intervista a Fausto Cabra, regista de “La storia”

Nessuna immaginazione viva potrebbe, coi propri mezzi, raffigurarsi i mostri aberranti e complicati prodotti dal suo contrario: ossia dalla mancanza totale d’immaginazione, che è propria di certi meccanismi mortuari
(Elsa Morante)

Natalia Ginzburg considerò La storia “il romanzo più bello del secolo” scorso e si spinse ad uguagliarlo ai Karamazov. Per  Geno Pampaloni, il piccolo Useppe è “il bambino più vero, e forse il primo, di tutta la nostra letteratura”, al pari di Alioscia e del principe Andrej. Cesare Garboli al cospetto del romanzo di Elsa Morante liquida come “anticaglie” tutti gli altri romanzi scritti nel secolo (scorso).

Enzo Siciliano invece ne ravvisa e contesta l’eccesso di “esplicitezza”, che ne fa un romanzo “ideologico e del tutto svelato” mentre Pier Paolo Pasolini imputa all’ideologia morantiana il torto di fondarsi sulla dualità puramente teorica tra bene e male, l’uno testimoniato dalla “vitalità prorompente” racchiusa nelle vite degli ultimi, l’altro inscritto nella grande Storia che è sempre stata “produttrice di morte”: tale dualità –pare evincere Pasolini –  priverebbe il romanzo di credibilità. “Nel momento in cui l’ “ideologia decisa” –scrive – viene trasformata in un tema di romanzo popolare, perde ogni credibilità: diviene un fragile pretesto che finisce per derealizzare la sproporzionata macchina narrativa che ha preteso di mettere in moto”.

Macchina che Alberto Asor Rosa assimila addirittura a un kolossal cinematografico la cui vocazione popolare si manifesta in due modi apparentemente opposti ma diretti al medesimo scopo: suscitare nel lettore una reazione emotiva e immediata. Da una parte la descrizione esaustiva di personaggi e situazioni infatti non lascerebbe spazio alla reinvenzione soggettiva; dall’altra, la deformazione pur minima dell’immagine della realtà raccontata, produrrebbe nel lettore un’emozione immediata.

Vero è che tra gli emozionati più illustri c’è un visionario come Federico Fellini che de La storia parlò come di “uno stupendo atto d’amore e di disperazione, che non sono riuscito a staccarmi di dosso neanche per un minuto, finché non sono arrivato all’ultima riga”.

Questo, solo per dare una minima idea di quanto il romanzo di Elsa Morante – 600 pagine e un milione di copie vendute nell’arco di un anno – sia stato controverso, originando un vero e proprio caso letterario di cui dicono i numeri: quasi 400 recensioni da ogni fronte – marxista, cattolico, destro, sinistro, anarchico-  elogi, stroncature, attacchi violenti e attestati commossi di gratitudine. Rinvio chiunque voglia approfondire gli estremi del dibattito al saggio edito da Quodlibet a cura di Angela Borghesi, L’anno della storia, 1974 – 1975, Il dibattito politico e culturale sul romanzo di Elsa Morante. Quasi mille pagine che raccolgono 204 recensioni e analizzano il caso Morante attraverso una gran mole di documenti, a partire dalla latitanza di Franco Fortini, che rinunciò ad entrare a gamba tesa nel dibattito, ma che il saggio di Borghesi insegue attraverso interessantissime testimonianze corollarie.

Quello su cui i più paiono concordare, al di là delle polemiche e del giudizio di merito, è la potenza eidetica della scrittura. Questo pezzo di tempo che corre tra il ’41 e il ’47, tra i bombardamenti e la fame in una Roma devastata dalla guerra, guardata attraverso la stentata quotidianità di una donna ebrea, madre di due figli, il secondo dei quali frutto di uno stupro da parte di un soldato tedesco, lascia dietro di sé immagini nitide di uomini e cose, figure scolpite, risonanze di voci e rumori, sensazioni fisiche che non si dimenticano.

Ed è questa plasticità della scrittura, questa sensorialità espansa e multiforme a offrirsi  alla sfida del teatro, del corpo e della voce, chiamati a evocare qui e ora una vicenda narrata in cui la forma diretta consiste solo di brevi battute.

Sfida che Fausto Cabra sembra quasi essersi posto da sé, una sfida che si è assunto in prima persona per adempiere a una consegna che il padre gli lasciò sul letto di morte.

“Mi devi promettere che metterai in scena La Storia”

Detto fatto? Non proprio. Ma il risultato è qui, sotto gli occhi di tutti. O almeno di coloro che hanno già avuto modo di assistervi in questa prima stagione di rodaggio.

Prodotto dal Centro Teatrale Bresciano e da La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello, lo spettacolo si presenta compiutamente allestito: si vede chiaro lo studio, la lenta elaborazione, la presenza di una direttiva di pensiero coerente e quindi la ricerca di una chiave di lettura possibile per inoltrare lo spettatore nella sterminata materia raccontata, facendo in modo che arrivi diretta anche a chi non ha (ancora) letto il romanzo.

In scena tre soli interpreti, Franca Penone, Alberto Onofrietti e Francesco Sferrazza Papa, i primi due impegnati in più ruoli.

Ne parliamo con il regista che, insieme a Marco Archetti, ha costruito una drammaturgia mirata e necessariamente selettiva.

Fausto, parliamo della genesi di questo lavoro.

 La genesi è personale. Di mettere in scena La storia me lo chiese mio padre tre giorni prima di morire. Fu uno degli ultimi dialoghi tra noi.

Tu cosa gli hai risposto?

Che non sarebbe stato possibile, i dialoghi più lunghi sono al massimo di tre righe.

E invece

Invece ci ho pensato e ripensato e ho deciso di rischiare. Lo spettacolo è dedicato a mio padre e ai miei padri teatrali, Luca Ronconi e Carlo Cecchi. Due registi agli antipodi ma La storia si prestava a essere affrontata guardando a entrambi. Il tema centrale di questo romanzo è un tema di lasciti, di quel che rimane.

E cosa è rimasto del loro insegnamento in questo lavoro?

Ne La storia ci sono due dimensioni: una coercitiva, la grande Storia, quella con la S maiuscola, che determina l’altra, grava su di essa e ne abusa. La grande Storia esercita la sua violenza sulla storia minima degli uomini, in ogni momento. Da Ronconi ho mutuato la costruzione artificiale per raccontare la grande Storia che assurge a posizione di fato, perché gli uomini ne hanno perso il controllo. Lo sguardo rivolto invece a uomini e donne, nel qui e ora, alla loro umanità e al loro coraggio, mi viene da Cecchi.

Si può dire che hai realizzato una tua personale cifra stilistica dall’unione delle due scuole di pensiero?

Ci ho provato. Ma d’altra parte la divisione non è così netta. Ronconi parte dalla forma ma non lascia certo fuori la sostanza; Cecchi parte dalla sostanza e arriva alla forma.

Ronconi come procedeva per inglobare la sostanza?

Io penso che nella cosiddetta recitazione ronconiana, se fatta come si deve, forma e sostanza finiscano per coincidere. Ronconi arrivava a possedere la materia quasi improvvisando.

Improvvisando? Ronconi?

Ricordo lezioni in cui l’ho visto piangere. Ci diceva “io non riesco ad andare dentro ma posso dirvi cosa voglio”. Aveva una forma di protezione, un pudore a entrare nel mondo delle emozioni altrui, ma non è che lui fosse privo di un mondo interiore a cui riferirsi, anzi. Bastava guardare cosa faceva con il corpo, che era sempre iperorganico: respiri, sudori, lacrime. E poi, certo, gli interessava la parte strutturale, ma i suoi attori preferiti erano quelli che ci mettevano il cuore. 

Infatti ne La storia il cuore batte forte: batte quello di Ida, di Nino, di Davide, di Useppe. E batte anche il cuore di chi li guarda sopravvivere, del lettore e dello spettatore.

La Morante ti costringe a empatizzare anche con i mostri, con la mostruosità della vita che si nasconde in uno stupro. Il soldato tedesco che violenta Ida lasciandola incinta di Useppe è in realtà un giovane militarino ingenuo, naif, appena arrivato a Roma da Dachau, che prima di diventare famosa per quello che sappiamo, era solo una piccola città bavarese dove aveva lasciato la madre. E lui da un lato prova a fare il supereroe, dall’altro pensa alla mamma.

Eppure lo sguardo indulgente nei confronti del giovane nazista è proprio il punto nevralgico su cui la Morante venne attaccata.

La Morante ci dice che distinguere tra bene e male è sempre difficile. E il suo discorso a me interessa soprattutto politicamente. Io credo che chi ti vuole far credere che sia facile in realtà ti stia manipolando.

Come, esattamente?

Consegnandoti troppo comodamente a casa un mondo pre-digerito, fatto di verità limpide,  giocando sulla nostra voglia di non fare fatica e sul nostro terrore della scomodità.

Però qui ci troviamo a fare i conti con uno stupro.

Sì. Ma d’altra parte è anche il momento in cui Ida vive un momento di estasi erotica. In questa scena, più che in altre, c’è luce e buio.

Il bello è brutto, il brutto è bello, come ci dicono le streghe di Macbeth?

Appunto, la Vita non è divisibile in bello e brutto perché in un attimo il brutto può diventare bello e viceversa. La Vita, nell’istante in cui avviene, è: è quindi amorale, non è pre-digerita, è un magma in cui luci e ombre, bene e male, giusto e sbagliato, sono impastati in un unico umido bolo informe. La Storia invece ha digerito, ha fatto ordine, ha giudicato ciò che è buono e ciò che è cattivo, ha distinto il bene dal male. Perciò la Storia quasi si autoproclama divinità, perché fonda sé stessa sull’atto divino di creazione per antonomasia: il separare la luce dal buio. Anche il Dio Cristiano non crea, ma separa. Ma Dio separa portando vita. La nostra Storia lo può fare solo vivisezionando post-mortem.

E a questa vivisezione la Morante si ribella

Noi tutti abbiamo un vitale bisogno di qualcuno che ci pre-digerisca la realtà. La Morante incomincia il suo viaggio dal magma della vita, senza giudizio, in un incipit disturbante, scomodo, tutt’altro che pre-digerito e credo anche in totale antitesi con il racconto Storico. Quello che io trovo politico, oggi, è il non dimenticarci mai che distinguere il bene dal male è complesso, scomodo, e, per citare Calvino “esige fatica e apprendimento continui”. Non possiamo non farlo, ma è vero anche che non è possibile farlo senza fatica.

E Ida rappresenta un po’ questo sforzo, questa volontà, o vera e propria disposizione,  di andare oltre una distinzione netta tra giusto e sbagliato, quella che tu definisci già-digerita, accettando e amando senza riserve colui che molti considererebbero il figlio della violenza.  Ida dunque è una giovane donna che si ritrova a essere madre di due figli. L’attrice che la interpreta, Franca Penone, entra in scena come una madre del nostro tempo, bloccata in aeroporto, che telefona ai figli per avvertirli del ritardo. E mentre aspetta legge La storia. Un’idea vincente per introdurci in media res.

Ho voluto partire con un codice di spettacolo ‘aggressivo’, chiaro da subito, che stabilisse un patto con lo spettatore e siccome quando leggo un romanzo, vedo dentro quel che già conosco, ho pensato che la donna che legge all’aeroporto potesse riconoscere nei figli di Ida i suoi due figli. L’idea di una mente che legge in scena lo stesso libro che andiamo a raccontare è stata la chiave di accesso che ho scelto insieme a Marco Archetti, autore dell’adattamento.

Ci sono indicazioni di massima che ti premeva dare?

Non volevo finire con le note disperate del romanzo, visto che loro, i personaggi, non hanno avuto la possibilità di riprendersi, ma noi sì. Io la loro guerra la conosco filtrata dalla mia fantasia e mi premeva essere onesto. E volevo cercare di arrivare anche a chi il romanzo non lo ha letto.

L’utilizzo della terza persona, oltre a essere conseguenza diretta di una trasposizione letteraria, arriva chiaramente da  Ronconi. Penso ai Karamazov, al Pasticciaccio e soprattutto a Lehman Trilogy dove tu avevi un ruolo importante.

Certamente arriva da Ronconi, ma in questo caso ho anche provato a rendere la terza persona necessaria. Non un mero codice teatrale, uno dei tanti: volevo che fosse giustificata drammaturgicamente, in quanto il romanzo stesso è un personaggio e l’atto della lettura è l’atto primario. In Ronconi la terza persona è un atto di auto-definizione del personaggio, anche con qualcosa di brechtiano, mentre nel nostro spettacolo la terza persona ha la funzione di ponte tra la lettrice e un altro essere umano (per quanto letterario), a cui doveva connettersi, quindi doveva essere necessariamente un atto più empatico.

Il fatto di risolvere con tre interpreti la distribuzione di più ruoli cos’ha comportato? Pensiamo che il ruolo di Useppe, da neonato fino alla fine, è affidato allo stesso attore, Francesco Sferrazza Papa. 

Il teatro, rispetto al cinema che ti può quasi “obbligare a credere”, ti può solo “chiedere di credere” a una convenzione. A teatro non possiamo portare in scena un cavallo, al limite l’attore può cavalcare una scopa, quindi se vuoi vedere un cavallo in una scopa, devi metterci parte della tua fantasia. È un patto. E se accetti questo patto, allora può anche incominciare il tuo viaggio personale, spesso più personale che al Cinema. E quindi un trentenne, a teatro, può anche essere un neonato in modo credibile.

Come diceva Gigi Proietti, con cui hai lavorato più volte, il teatro è quel luogo in cui tutto è finto ma niente è falso.

Infatti,  per arrivare alla verità non esiste soltanto il codice della verosimiglianza; succede anche nell’arte: basta guardare a Polloch, Van Gogh, Picasso.

Ne La storia ti sei limitato alla regia. Come attore come ti collochi?

Anche il teatro è fatto di codici differenti: se faccio Amleto, per esempio,  non applico gli stessi codici di Peng (il piccolo mostro che dà il titolo a un recente spettacolo diretto da Giacomo Bisordi dal testo omonimo di Marius Von Mayenburg ndr https://www.teatrovascello.it/2021/03/28/peng/). In ogni caso mi piace rischiare, vivere le situazioni, perdermi come un bambino che gioca al lupo cattivo. Non sopporto il teatro che non rischia. Io voglio donare al pubblico la mia assunzione di rischio, voglio uscire dalla confort zone assumendo anche posizioni scomode, accettando anche il rischio di non piacere.

Uno spettacolo come Peng lo ascriveresti alla categoria del nuovo?

No, ma lo ritengo un lavoro necessario oggi. Sono stufo di questa ossessione per il nuovo, di volersi inventare qualcosa a tutti i costi. Il nuovo casomai capita, ma te ne accorgi dopo vent’anni. Quella che invece non può mancare è la necessità, all’interno della quale può accadere qualcosa di nuovo, di non previsto né programmato. Solo all’interno della necessità può avvenire l’accadimento ed è sull’accadimento che si fonda il teatro, non sul nuovo. Se si punta troppo a cercare la novità, sul palcoscenico non resta che l’ego del regista o degli attori, il bisogno di mostrarsi, di farsi riconoscere in una posizione, o di imitare uno stilema. La terza persona, per esempio, e la funzione della donna che legge, se non fossero necessitate dalla drammaturgia, sarebbero solo imitazione sterile dello stilema ronconiano.

Parte della drammaturgia sono senz’altro le luci di Gianluca Breda e Giacomo Brambilla e le musiche composte da Mimosa Campironi, attrice e musicista con cui hai condiviso diverse esperienze artistiche. Qual è stato il tuo suggerimento?

Volevo rendere sonora la luce e illuminare il suono.

Concretamente?

La sfida principale che aveva Mimosa era, da un lato, dare una sostanza alla Storia con la S maiuscola, inscenata dalla macchina di motorizzati a vista e, dall’altro, dare una sostanza all’umanità racchiusa in queste piccole storie (dalla s più che minuscola) che si muovevano ai piedi della macchina.

Da una parte, la dimensione sonora della penna della Storia, dall’altra  la dimensione armonica e musicale della penna della Morante, con la sua storia minima. Ecco, io ho chiesto di far stridere queste due dimensioni. E di rendere la luce atto scenico e non pura convenzione teatrale. Ma per farlo bisognava fare in modo che ogni luce incidesse in modo proprio, illuminando i suoni o, meglio, dando un suono alla luce. Ogni luce doveva essere materializzata da un suono.

Hai parlato anche di una terza dimensione musicale.

Sì. Arriva quando Useppe nella radura vi si connette: è una sfera misterica, che comprende anche la sfera della Storia artificiale umana e che relativizza tutto con la sua potenza legata alla Natura e alla Vita, con la N e la V maiuscole. Nella natura Useppe scopre che tutto il mondo canta ed è un tripudio di bellezza. In quel preciso momento la macchina artificiale suona le sue luci come i tasti di un pianoforte e arriva per la prima volta una luce altra, di cui non vediamo la fonte, una luce extra diegetica, naturale, potente, non selettiva, ma che tutto abbraccia.  Lì Mimosa ha composto una delle musiche più belle. Insieme a quella del finale, quando la lettrice (a post romanzo) riabbraccia in aeroporto i suoi figli.

Infatti è anche grazie alla musica che risuonano forte le corde emotive dello spettatore

Le ho proprio chiesto di non avere timore a comporre una musica che accompagnasse in maniera commovente la dimensione delle anime dei personaggi perché sono profondamente convinto che la risposta di grande speranza che è nascosta in questo romanzo stia proprio in quella commozione primaria che l’esperienza del romanzo genera. La storia è stato spesso tacciato di essere un romanzo senza vie d’uscita e senza speranza, ma per me la strada che indica sta proprio in quella lacrima che ti scende dopo l’ultima pagina, lì c’è la risposta politica, lì c’è la via che la Morante ci indica: nell’empatia, in quella lacrima c’è il Cristo che Elsa, nella figura di Davide Segre, nell’osteria, indica come la via da ritrovare, quella lacrima che è ‘il Cristo in ognuno di noi’.

Una scena, questa dell’osteria, in cui l’attore, Alberto Onofrietti, sfonda la quarta parete.

È una scena in cui la Morante sembra si tolga un po’ di sassolini dalle scarpe e si rivolga direttamente agli intellettuali ‘vomitando’ il suo personale atto politico, di fortissima necessità. Per questo ho voluto che Alberto la recitasse in platea, proprio come Alberto, e non come Davide (non come personaggio).

Qui c’è la risposta alla richiesta di una via politico-sociale che gli intellettuali dell’epoca cercavano (e non trovavano) nel romanzo: Elsa l’ha nascosta nelle lacrime dei lettori che sgorgavano l’istante successivo alla chiusura dell’ultima pagina. Anche per questo motivo mi sono permesso di (e mi sono arrischiato a) mettere una lieve storia contenitore che ci porta a Noi.

Possiamo concludere che la consegna di tuo padre, inizialmente accolta con un po’ di riserve, è diventata una necessità molto forte?

Certo. Com’è necessario un atto di memoria. La generazione uscita dalla seconda guerra mondiale è stata quella con la coscienza più lucida e anche quella che ci ha permesso di vivere ottant’anni di pace. Adesso ricordare tocca a noi. Ma l’unico modo possibile per esercitare un atto di memoria, per noi che non abbiamo fatto esperienza diretta, è l’empatia. Ecco, il teatro e l’arte in genere ci permettono di esperire l’orrore attraverso la fantasia e l’empatia.

E insieme all’empatia mettiamoci lo studio, la conoscenza

Io scelgo di lavorare sulla mia ignoranza e non su quel che già conosco proprio perché mi sento costretto a fare un percorso di conoscenza e spero che la necessità che sento, quella di riconnettermi con la storia dei miei nonni, trovi un’eco nella necessità del pubblico. La mia necessità è legata a ciò che mi manca.

[La storia, liberamente ispirato a La storia di Elsa Morante, edito in Italia da Giulio Einaudi Editore. Drammaturgia Marco Archetti. Regia Fausto Cabra. Con Franca Penone, Alberto Onofrietti, Francesco Sferrazza Papa. Scene e costumi Roberta Monopoli Drammaturgia del suono Mimosa Campironi. Luci Gianluca Breda, Giacomo Brambilla. Video Giulio Cavallini. Regista assistente Silvia Quarantini. Consulenza movimenti scenici Marco Angelilli. Produzione Centro Teatrale Bresciano, La Fabbrica dell’Attore-teatro Vascello]

di Alessandra Bernocco