L'essere sani di mente è un patrimonio che accumulo come un tempo la gente accumulava il denaro.
Lo mette da parte, per quando sarà il momento.
Margaret Atwood
Se devo identificare un segno forte di questo allestimento di The Handmaid’s Tale I racconto dell’ancella, al di là dell’ottima prova di Viola Graziosi, sempre più centrata e sicura nel suo essere interprete al servizio di una causa che la smuove e necessita, è in una sorta di contagio di atmosfere, un’osmosi di epoche non definite, che ci fanno sentire appartenenti nostro malgrado a un destino di morte, non già di fine ma di qualcosa di terminale che non accenna a finire e che grava su quel po’ che resta di vita, togliendo il respiro o ansimando rumorosamente in nostra vece. Come se la morte agisse più viva che mai nella sua consistenza, nella sua persecutoria presenza che non ci abbandona.
Il romanzo di Margaret Atwood, uscito nel 1985, già noto al pubblico televisivo grazie alla serie di Bruce Miller, è una chiara e perturbante distopia indotta, tra l’altro, dalla crisi americana tra gli anni 70 e 80, con tutto il carico di conservatorismo infestante che avrebbe portato Ronald Reagan e la sua politica guerrafondaia e repressiva a vincere le elezioni del 1980.
Inoltre, considerando la biografia dell’autrice, canadese figlia di entomologo, infanzia nelle foreste del Québec al seguito del padre, mi sembra di poter rintracciarvi anche la grande questione del genocidio culturale perpetrata in Canada fino al ’70 in nome di una civilizzazione che fu invece vera e propria barbarie e che strappò 200 mila bambini aborigeni alle loro famiglie per consegnarli a famiglie affidatarie e internarli in scuole residenziali.
Anche questo, in modo più o meno percettibile, confluisce nel romanzo di Atwood in cui la distopia è forse più scaramantica che fantascientifica, come se l’autrice paventasse davvero un’involuzione radicale dell’umanità tutta. Una preveggenza, la sua, ansiosa e ansiogena, che mette in guardia il presente minacciato da un futuro non impossibile, simboleggiato da questa società teocratica chiamata Repubblica di Gilead che assurge al potere annientando, oscurando, tacitando tutto quello che non è funzionale a sé stessa. Dove le donne sono asservite al potere maschile e a una ‘meccanica’ riproduzione della specie. Confinate in un mondo surrettizio dove persino la visuale è castigata dalla divisa: una cuffia bianca con alette che costringono lo sguardo e impediscono di essere viste.
Quello che inquieta, soprattutto, è la contaminazione di segni tra il nostro mondo e il nostro tempo e un mondo chiuso che ci precipita addosso ma con la memoria intatta di un tempo diverso. Si parla di libri ma non si possono leggere, si parla di denaro di cui non si può più disporre, si parla di uomini e persino di sesso ma non c’è libera scelta e il desiderio stesso, interdetto, pare essersi estinto.
Come se oggi, sicuri nelle nostre coordinate civili, sociali, economiche e politiche, ci trovassimo catapultati in un altrove fittizio che ci imprigiona, dove soltanto noi siamo reali: un incubo, forse, con le nostre parole che non funzionano più.
Il racconto di quel che succede lì dentro è affidato all’ancella che è memoria del prima e anticipazione del poi, passato e futuro improvvisamente azzerati da un qui e ora claustrofobico. Dove si è soli, irrimediabilmente isolati eppure spiati, controllati, eterodiretti. Dove ogni residuo di coscienza e volontà individuale è destinato a soccombere, normalizzato dalla legge e annullato nel potere degli uomini al comando, i Comandanti, appunto.
Di questa bolla di mondo che minaccia di esplodere e rovesciarcisi addosso, foriera di contagio e corruzione, la regia di Graziano Piazza sviluppa visivamente la consegna distopica e la fa propria con i mezzi artigianali di cui dispone il teatro, senza ricorrere a stratagemmi di sorta. Lavorando sottilmente sulla contaminazione di segni – cupi, asfittici, perturbanti – innescata da inquietanti suoni subliminali e da tante cuffie bianche che dall’alto puntellano la scena ad annunciare la presenza di mute replicanti, sospese in un altrove incombente, si prefigura una dannazione comune, un sacrificio collettivo da assumere e scontare con remissione crescente e sempre meno stupore. “Una generazione di transizione”, la loro, destinata a morire senza lasciare memoria perché il linguaggio è impedito e la trasmissione impossibile: oltrepassata la soglia, l’annientamento è compiuto.
Almeno questo è quanto ci dice la Atwood prima di indicarci la via di una ribellione possibile. La memoria, nonostante tutto.
Lo spettacolo indugia sul prima, sulle misteriose – e provvidenziali – risorse della psiche umana, sulla capacità di adattarsi che risiede dentro di noi, nascosta e imprevedibile, arma diabolica, a doppio taglio, a cui attingere per non morire, ma che ci doma consegnandoci al boia.
Sarà Difred, l’ancella interpretata da Viola, chiamata dall’autrice a tenere viva la memoria di un prima diverso, libero da quel Di che, con un significativo gioco linguistico, rappresenta il suggello del possesso di Fred.
L’ancella stessa è annunciata dall’attrice, in un dentro e fuori ruolo, in un prima e in un dopo che dividono nettamente due dimensioni non comunicanti: prima attraverso un megafono che ci immette nella storia, poi dalla sua lenta svestizione e vestizione, dall’accurato intrecciarsi i capelli, dal coprirsi il capo consegnato alle ombre, dal tuffo nel rosso sangue della lunga veste e della luce. E così gli altri ruoli- angeli, zie, non donne, lo stesso comandante- evocati da lei stessa attraverso il racconto, con una padronanza che mai perde il controllo, in equilibrio tra narrazione e vibrazioni di corpi svuotati di anima, le doglie certe di una puerpera per delega, la comunicazione a due ridotta a domande e risposte convenzionali, ribadita attraverso il movimento del capo, ora chino ora sollevato poiché altra visuale non è concessa, la parola ‘libertà’ soffocata in gola.
Eppure – dicono gli uomini – abbiamo dato loro più di quanto non abbiamo preso. Che volete di più. Oltre la legge di natura non c’è nulla da ripristinare. Non la libertà. Non l’amore. Non sentimenti che all’amore somiglino.
Ma attenzione. Attenzione perché dietro il velo, prima ancora di averlo deposto, c’è il perno della rivolta. Atwood parla addirittura di perdono e l’eco evangelico del discorso della montagna e del discorso della pianura è fortissimo. Il potere più grande è il perdono, ci dice, e sono le donne a non potervi resistere.
“Non sarai mai soggetto alla tentazione del perdono, tu uomo, come lo sarà una donna. E’ difficile resistere, credimi. Ricorda, però, che anche il perdono è un potere. Chiederlo è un potere, e negarlo o concederlo è un potere, forse il più grande”.
The Handmaid’s Tale I racconto dell’ancella è stato riproposto al Teatro Basilica di Roma, meraviglioso spazio sotto la navata centrale della cripta della Scala Santa, perfetto per accogliere e nascondere, per contenere e svelare.
Inutile ribadire quel che il testo e lo spettacolo dicono chiaramente: la distopia datata 1985, oggi, è assai meno distopica e molto molto inquietante. Basta uno sguardo alle nostre sorelle coperte dal burqa, se ancora riusciamo a vederle.
Viola Graziosi
in The Handmaid’s Tale – Il Racconto dell’Ancella
tratto dal romanzo di Margaret Atwood
traduzione di Camillo Pennati per Ponte alle Grazie
consulenza letteraria Loredana Lipperini
consulenza artistica Laura Palmieri
musiche originali: Riccardo Amorese
regia: Graziano Piazza
produzione: Teatro della città
di Alessandra Bernocco