Metro Goldwyn Mak - racconti dalla metropolitana
Qualche matto afferma che nel Sistema Solare siano presenti ben quattro trilioni di navi aliene. In pratica, solo Roma è più trafficata dell’angoletto di cosmo dove soggiorniamo, peggio ancora se con i vigili agli incroci. Ma oggi, questo, sarà un luogo comune senza senso. É domenica mattina e c’è chi preferisce poltrire fino al pomeriggio, abbarbicato in una pace attraente come una donna addormentata, col viso affondato nel cuscino e nascosto tra i suoi stessi capelli. Io invece, prediligo lasciarmi andare nella quiete ipnotica della città, senza clacson né imprecazioni. Ho caricato uno zainetto ed a passo svelto mi avvio verso la stazione della metropolitana. Sembro un pescatore di attimi che si spinge al largo, col suo barcollante trabiccolo, alla cattura di momenti o ispirazioni fulminee, o ancora, di scorci suggestivi, tra i milioni disponibili, che questa stramaledetta capitale di sicuro saprà regalarmi. L’aria è frizzante, il cielo terso, e anche se i gabbiani volteggiano in alto come avvoltoi, sento odore di buona giornata. Attraverso un mondo piacevole, ovattato. Dal “ciauuu” di Alì, l’uomo mitologico che trasforma in movimento il corrispettivo in banconote affidatogli per essere introdotto nel distributore automatico del carburante, fino al “buongiorno” sorridente di Sonia, la barista biondina che ad ogni mio transito si ricorda di quando l’ho aiutata a rialzarsi dopo un clamoroso inciampo. Finanche il nazista che mi abita a cinquanta metri, in giro col pitbull suo gemello ed un bicipite pieno di nostalgia, oggi mi sta meno sulle balle. La stazione di Gardenie sembra una riproduzione traslata del mondo di sopra. C’è pace anche quaggiù. Certo, dovrò attendere ben dodici minuti il prossimo treno ma, per questa giornata, sarò composto solo da atomi di serenità e non voglio pensarci. Lungo la banchina siamo in tre. Da una parte un uomo baffuto, probabilmente un pakistano, o chissà, bangladese. Non riesce a trattenere le risate sguaiate mentre guarda un video su un cellulare a volume altissimo. Dall’altra parte, una giovane donna con due grosse buste verdi poggiate per terra, attende il treno specchiandosi sulla vetrata di sicurezza. Entrambi siedono su sedili posti alle estremità della banchina. Io sono nel mezzo e dovrò accontentarmi di un PIC&RSIP, uno di quegli strani aggeggi inventati da qualche spietato genio del sadismo o da uno strampalato designer della scomodità. Le parole metalliche di “Claretta-voce-perfetta”, al solito, elencano le stazioni della C con ascensori non funzionanti: in fondo, è dal giorno di inaugurazione di questa linea che, ogni cinque minuti, rimandano lo stesso ritornello. Ma c’è un’altra vocina, inaspettata, corroborata da sibili e acuti, che attira l’attenzione di tutti. É una bimbetta che irrompe saltellando sul piattume dell’attesa. Avrà al massimo tre anni, una chioma voluminosa, nerissima e riccioluta, aggrappata saldamente alla sua testolina. Si muove come un cespuglio sballottolato dal vento. Sembra un “tumbleweed” nel pieno di una corsa infinita ed irregolare. Sobbalza, ritmicamente, di qua e di là, dentro un vestitino rosso. Ha con sé un palloncino bianco tenuto da un lungo filo. La piccola apre la manina per lasciarlo volare verso l’alto e ne segue il volo fino a quando si ferma sotto la struttura di copertura che fa da soffitto. La mamma, una donna minuta di probabile origina magrebina, interviene per recuperarlo, tirando a sé il filo e restituendo ad Amina (la chiama così) il palloncino. Ed ogni volta la piccola esplode in una risata contagiante, trasferendola a tutti. Il gioco si ripete due, tre, quattro volte, fino a che, in una lingua incomprensibile ma chiarissima nei gesti, la madre la invita a smettere poiché, di lì a poco, sarebbe arrivato il treno. Ma come la freni la gioia? Dò un’occhiata al display. Adesso riporta sette minuti all’arrivo del treno. Sulla banchina sono arrivate un altro paio di persone, solo che ora, Amina, piange e strilla disperata, improvvisamente. Mi accorgo che proprio vicino a me, il palloncino, nell’ennesimo volo verso l’alto, si è incastrato in uno spazio vuoto tra una copertura e l’altra, diventando di fatto irrecuperabile. Troppo in alto per arrivarci. Parte una spontanea corsa all’aiuto. Ho provato ad allungare il braccio anch’io, senza successo. Ahimè, sono meno alto di quel che pensavo… E così ci ritroviamo a guardare all’insù, tutti insieme, come le giraffe quando cercano tra i rami alti le foglie da mangiare. Cerchiamo una soluzione che ci illumini mentre noto una sorta di cappio, nell’estremità in basso del filo. Probabilmente la bambina lo usa per infilarci il polso e tenere il suo “amichetto” bianco in sicurezza. Ma Amina piange ancora, è un fiume in piena, e sua madre guarda tutti con un’espressione a metà strada tra il “te l’avevo detto io” e “per favore aiutatemi a recuperarlo”. Con la lampadina delle idee fulminata ritorno al mio PIC&RSIP rassegnato. Guardo impotente le lacrime della piccolina e penso che la serenità della giornata, per ora, sia andata a farsi fottere. Ma rovistando dentro lo zainetto, ecco, improvvisa, la luce: in una delle tasche interne trovo un selfie-stick del quale avevo dimenticato l’esistenza. Qualcosa mi suggerisce che, in quella circostanza, quell’aggeggio può rappresentare una chiave per far tornare il sorriso ad Amina. Mi avvicino al punto dove il palloncino si è incastrato, allungo il bastone del selfie-stick al massimo della sua estensione cercando di agganciare il piccolo cappio all’estremità del filo. Amina mi osserva singhiozzante mentre eseguo la manovra, speranzosa, come sua madre. Dopo un paio di tentativi andati a vuoto finalmente aggancio il filo, tiro verso il basso il palloncino, lo prendo tra le mani e lo restituisco alla piccola. Sono trionfante e orgoglioso di me. Talmente tanto che mi abbraccerei da solo. La fine della storia è solo una rapida successione di emozioni e commozioni: Amina che abbraccia il palloncino come per proteggerlo e non farlo scappar via un’altra volta; Amina che con una smorfia a metà tra il pianto liberatorio e un urlo di gioia, mi si avvinghia singhiozzante alla gamba; io che non posso evitare di accarezzarle il “cespuglio” di capelli; la madre che si avvicina ringraziandomi prendendo la mano della figlia e il palloncino; gli sguardi soddisfatti dei presenti. In fondo la felicità è una cosa così semplice che a volte può essere dimenticata in uno zainetto. Ma riconoscerla e poi regalarla a qualcuno, vi assicuro, fa volare. Il treno sta arrivando. Il piccolo e simpatico cespuglietto ha ancora le gote rigate, ma ora sorride. Ed un selfie-stick che avevo dimenticato di possedere, adesso se la tira impettito. Forse dovrò regalargli un mantello da supereroe. A proposito, PIC&RSIP sta per “poggia il culo & rimani scomodo in piedi”.