Metro Goldwyn Mak - racconti dalla metropolitana
“Giusto mal di testa?” – L’uomo, un giovane africano con indosso un kaftan colorato prevalentemente di azzurro e giallo, mi pone una domanda bizzarra. “Eh? Scusa… non ho capito” – “Qui bene por mal di testa?” – Non riesco a comprendere, lo guardo perplesso, ma lui riparte all’attacco e insiste “Io andare mal di testa, vicino Agua Bullicante”. Ora finalmente è tutto chiaro – “Amico, devi prendere la Linea C, questa è la Linea A. Vai a San Giovanni, prendi la Linea C e scendi a Malatesta, hai capito?” – “No” – “Ok, english. Get off at San Giovanni, change line, take the C, green line, and get off at Malatesta. Ok? E poi si dice Malatesta. Ma-la-tes-ta, no mal di testa, ok? Anche perché per quello saresti già nel posto giusto…” – “Si, si, thank you amico”. Congedato il malato immaginario che va via dopo un accenno di inchino, ritorno sui miei passi. Mi appresto ad attraversare un pezzo di mondo particolare, un labirinto fatto di scale che si dipanano in tutte le direzioni, sfidando le leggi della gravità e sovvertendo modelli matematici ultra consolidati. Un mondo che sembra un vortice d’acqua dentro un lavandino. Un luogo di traiettorie dubbie prive di indicazioni, di ascensori perennemente chiusi, di sensi di marcia rigorosamente contravvenuti, di incroci tra mandrie di viaggiatori che convergono da molte direzioni, miscelandosi tra loro, per poi disorientarsi. Insomma, un luogo dove smarrirsi è più facile che ritrovarsi, che sembra essere una gigantesca scultura di Escher, stampata in 3D, piazzata al centro della stazione metropolitana di Roma Termini, laddove c’è il passaggio che collega la Linea A, la Linea B e la stazione ferroviaria, e dove io, nonostante anni di frequentazione, ancora mi imbambolo. Dentro il treno della B, alla fermata Cavour, osservo salire una donna che trascina con sé un altoparlante su rotelle. É una gitana, una zingara che ho già incrociato diverse volte. Indossa una gonna lunga a quadrettoni, una maglietta bianca sotto un giacchetto grigio, ed armeggia con un microfono collegato all’amplificatore. Ricordo che una volta qualcuno l’ha ribattezzata “Laura Pausinti”, per via delle sue origini e del repertorio della nota cantante romagnola che è solita propinare. Dopo aver acceso la base, attacca con “La solitudine”, ma subito si capisce che la voce, quest’oggi, non sembra essere al meglio: regge a fatica i passaggi più alti. La donna porta a conclusione il brano piuttosto rapidamente senza mai incrociare gli sguardi dei presenti, poi, inizia a cantare “Strani Amori”. A orecchio, questo brano, sembra più alla portata della sua ugola maldestra. È tuttavia un’esibizione che non produce nessuna forma di empatia con i viaggiatori. Lei si mostra alessitimica, senza alcun trasporto per quella routine, indifferente a ciò che fa e a chi la guarda. Intorno sono distratti e disinteressati, al massimo qualcuno le degna un attimo fugace per tornare poi dentro sfere personali. Se fossimo in un talent-show, i giudici presterebbero attenzione alla sua performance con lo stesso proverbiale entusiasmo con cui Kimi Raikkonen festeggiava le sue vittorie. Nessuno, insomma, accenderebbe una X per lei. In fondo però, la donna si mostra come un gelido distributore di note vuote. Nelle sue vene sembra circoli l’Antartide, e nessun fuoco. Ha probabilmente sviluppato un callo ai luoghi comuni che l’accompagnano e ad una quotidianità umiliante intrisa di altrui disprezzo e di parole prevenute. Solo un commento infastidito, infatti, si alza tra i presenti: “Ma questa dove va? Intanto, il biglietto di sicuro, non l’ha pagato…”. Alla fine del secondo brano tira fuori una scatoletta per raccogliere qualche spicciolo che nessuno le concede. E così, freddamente come era entrata, si è avviata all’uscita a San Paolo Basilica ed altrettanto freddamente se n’è andata, portandosi via una nuvoletta triste senza anima né pathos. C’è qualcosa che però oggi mi sfugge. Forse è la Giornate Mondiale “dei musicisti in metro” visto che, come dandosi un cambio non programmato, nel vagone piomba ora un altro itinerante artista della “tube”. Questo è sulla cinquantina, alto, piuttosto allampanato, con una chitarra acustica tenuta per il manico ed un paio di occhiali scuri parcheggiati su un viso magro e spigoloso. Si piazza davanti ad una porta del vagone, sfidando gli occhi all’insù di qualcuno, e dopo un attimo di esitazione graffiato da un accenno di sorriso, indossa la tracolla dello strumento e attacca con un accordo in Do maggiore. Tiene il tempo quasi avesse una sfida in sospeso col cronometro: “Mi guardi e sorridi nonostante quel gelo, nel fondo degli occhi, sulle tue scarpe rotte…”. L’attenzione della gente stavolta si desta improvvisamente, come innescata da una mano invisibile che ha premuto un pulsante... “mio figlio è già grande, cresciuto in silenzio, non fa mai domande, scruta giù nella notte...”. Anche Raffaele è una vecchia conoscenza della metro. Per motivi diversi calchiamo, a volte, gli stessi pavimenti. Lo conosco già. Forse è un uomo segnato, ma sincero, appassionato. Crede molto nella forza delle parole e riesce a farsi ascoltare. “…quell’ombra sui vetri si schiarisce in bagliore, non è un raggio di sole…” Nel vagone, ora, c’è chi batte il ritmo col piede. Una coppia di ragazzi ascolta e ondeggia al ritmo della musica, e c’è qualcuno che accenna a cantare insieme a lui “…Palestina libera…” Il brano cattura, galleggia leggero tra le persone, le abbraccia, le accarezza. Scorre fluido “ti prendo la mano nella pioggia assordante, di chimica luce, stringi al grembo tuo figlio… Palestina libera…” fino a dematerializzarsi con un’ultima pennata “…Palestina li-be-ra…”. L’uomo si ferma. Adesso si intrattiene parlando coi presenti. Si definisce un bravo cantautore che distribuisce briciole di poesia e parole che vengono dal cuore, che ama la musica e la vita. Lo dice con orgoglio. E a chi vuole, lascia un pezzettino di carta sul quale, a penna, è scritto il suo nome. Raffaele invita la gente a seguirlo su YouTube mentre qualcuno gli lascia qualche moneta. Lui raccoglie e ringrazia, sempre sorridendo e sempre inducendo al sorriso gli altri. Poi, dopo aver accennato ad una canzone scritta per Giulio Regeni, saluta con un inchino e si allontana per spostarsi in un altro vagone. Lo seguo con lo sguardo, pensando che esistono uomini belli, liberi e magnetici anche nelle prigionie urbane. Uomini che noi, fantomatici e maldestri giudici di tanti talent-show quotidiani, dovremmo imparare a leggere dentro, magari accendendo una X, e magari canticchiando quel motivetto che più o meno fa “Palestina libera, Palestina li-be-ra…”.