«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere che e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»
(Italo Calvino, Le città invisibili)Impressioni a tiepido dopo avere visto Io Capitano: a tiepido, perché a caldo non sono riuscita e non credo si raffreddino mai. Pertanto non mi resta che dare adito a un travaso disorganizzato di emozioni in atto.
La prima cosa che mi viene da dire è che di questo film ho amato tutto. Tutto, senza riserve. Il che è strano, difficile, quasi impossibile. Trattasi di innamoramento, forse, di quegli innamoramenti che ti obnubilano il giudizio e il benché minimo senso critico. Può darsi. Certo è che ripercorrendo le scene dall’inizio alla fine, non trovo nulla, ma proprio nulla, che non sia un tassello provvisorio di una perfezione finale.
Questo film si evolve come un’opera tragica che però non termina con la morte dell’eroe ma con la sua salvezza. E nella sua salvezza c’è la salvezza di tutti. Ma sono presenti tutti gli elementi di una tragedia classica. Conflitti replicati che si ripropongono ogni volta con più precisione e compromissione da parte dei due protagonisti, Seydou e Moussa, due ragazzi senegalesi che lasciano Dakar alla volta dell’Europa. Ribaltamento di prospettiva a partire dal rispecchiamento l’uno nell’altro fino all’inversione di intenti e quindi di ruoli, sottolineato dall’utilizzo di un linguaggio mimetico. Catarsi. Quella cosa che ti fa trattenere il respiro e poi ti libera attraverso un’azione risolutiva, definitiva o provvisoria, ma sempre diretta a farti tirare un sospiro di sollievo. Ce l’hanno fatta, fin qui ci siamo. Ora si ricomincia. Il viaggio continua. Scampato il primo pericolo, superata la prima prova, si torna a rischiare, a sognare, a rimettersi in gioco. A oltrepassare il confine, sull’orlo del baratro, scongiurando il risucchio. Mentre noi che li stiamo scortando dalla nostra poltrona di un cinema, siamo di nuovo tesi come una corda di violino.
I film di Matteo Garrone fanno i conti con la catarsi. Non so quanto questo sia intenzionale ma l’ho constatato più volte. Andando a memoria penso, per esempio, a Il racconto dei racconti, a quella minacciosa traversata sulla fune che si sta per spezzare e poi niente, la salvezza di uno è il terrore degli altri. Almeno fino a quel preciso momento.
Qui si parte da un sogno per arrivare al suo esaudimento. Ma, appunto, si parte da un sogno. L’epica tragica è l’inseguimento di un sogno con una serie di prove da superare.
Ho apprezzato tantissimo che il viaggio dei due ragazzi non partisse da una situazione di disagio, di guerra, di dannazione, ma da quella che è la cosa più nobile e lecita e difendibile per un ragazzo di sedici anni a qualunque lati-longitudine di questo pianeta (altrimenti detto globo terracqueo): sognare. Anche il successo, anche la ribalta, anche gli autografi. Sognare la bellezza, la musica, un po’ di ricchezza. Sognarla al punto da risparmiare oggi per potersela permettere un giorno. Sognare l’Europa, sognarla al punto da mentire alla madre, che li vorrebbe proteggere trattenendoli a sé, fino a fuggire in incognita, con un bel fardello di sensi di colpa, sostenuti da un sogno innocente di emancipazione: sogno che sbiadisce e si sgretola mano a mano che si avvicina.
Ecco, questo rapporto inversamente proporzionale diventa esplosivo. Lo spettatore sa bene che la terra promessa è lì che li aspetta, lo sa perché siamo al cinema e non può essere che così, lo sa perché il film si intitola Io Capitano e quale capitano raccontato in un film non porta a termine la sua missione per tutti? Lo spettatore, dunque, lo sa: lo sa però lo dimentica. La forza di questo film e di questa regia, è che ti costringe senza costringerti a dimenticare di essere al cinema. E in quel pezzo di tempo in cui non ricordi, in quel frammezzo tra coscienza in stand by e partecipazione viva, si apre lo spazio per la catarsi. Le successive catarsi che questo viaggio ci pone davanti. Non è facile eppure ci riesce. E ne esci provato, sollevato, tu stesso come un superstite scampato alla tempesta.
Lo spettatore teme per loro ma li incita a resistere e forse, ogni tanto, suggerisce di ripensarci. Torna a casa, torna da mamma. Sii contento di quello che c’è. Salvo che poi vorrebbe far fuori tutti coloro che si mettono in mezzo, che non li aiutano, li contrastano, raggirano, ricattano.
Lo spettatore prende parte, si insinua dentro il conflitto dei due amici, parteggia per l’uno o per l’altro quando non sono d’accordo. Seydou e Moussa. Il timido e l’entusiasta. Il freno a mano e il motore di traino. Il risparmiato e il sacrificato. L’abbandonato alla sorte che assume su di sé il destino di entrambi e la vittima sacrificale che paga lo scotto anticipato al nemico e alla propria ambizione. L’hybris è punita, lo stratega è annientato. Sacrificato al punto da rimettere in discussione il sogno, da capitolare di fronte a esso, per sfinimento, per sottrazione di vita, di aria, perché gli hanno rotto le ossa, rubato l’anima, perché lo hanno torturato e depredato in un carcere libico.
Finché non sarà Saydou, il freno a mano, a riscattarlo. Perché? Perché nessuno si salva da solo. Perché è possibile farsi carico di un destino comune soltanto condividendolo. Senza Moussa, Seydou non parte, il viaggio si interrompe per cercare l’amico. A nulla vale l’offerta amorevole di un padre putativo, incontrato sul percorso, che si è preso cura di lui e lo vorrebbe portare in salvo con sé.
Se ci si salva, ci si salva in due. Ma ci si salva. Perché quando Moussà non ce la fa più, quando il suo sogno vacilla divorato dal dolore e dalla paura, sarà Seydou a impugnare il testimone. Ora tocca me. Ed ecco che il ruolo si ribalta e il linguaggio diventa mimetico. Il freno a mano persuade con la forza del motore all’ultimo scatto, anzi al penultimo, usa le sue stesse parole, adotta la sua stessa impazienza, restituisce l’ebbrezza che gli era stata trasmessa. È allora negli occhi spenti di Moussa, nello svilimento del suo giovane corpo martoriato, nel suo spirito arreso di fronte alla brutalità degli aguzzini, si riaccende la speranza e il destino da compiersi torna a farsi possibile.
Non siamo ancora arrivati allo stadio finale perché il tenero e timoroso Seydou si trova di fronte al suo ultimo logorante conflitto, decisivo, di fronte al quale non ha scelta ma solo remore inascoltate che gli lavorano dentro. Seydou si ritrova costretto a pilotare egli stesso, incapace persino a nuotare, la barca oltremisura piena di gente. Vicino a lui, Moussa, gregario non rassegnato ma stanco, stremato, malato e bisognoso di cure urgenti per non morire.
Ma quando la terra si para loro davanti, sotto il rombo del motore di un elicottero, il mare calmo che sa di pace e di buoni auspici, una puerpera a bordo insieme al suo piccolo appena partorito, tutti salvi i migranti, siamo salvi anche noi e anche noi con Seydou ci sentiamo finalmente liberati: purificati, appunto, come alla fine di una tragedia greca.
Ma qui l’eroe ha vinto, il ragazzo inesperto, un po’ ingenuo, ostinatamente altruista e pacifico, è diventato uomo: esperto, saggio, ostinatamente altruista e pacifico. Il ragazzo che si era fermato in mezzo al deserto per soccorrere, lui solo, una donna morente, perdendo terreno e guadagnando un’umanità quasi irreale, è lo stesso uomo che grida al cielo la sua vittoria e la sua vittoria è la salvezza di tutti: Io Capitano.
Con quel grido pieno di gioia e di meraviglia, il film si fa da parte lasciandoci la storia e alla storia: una consegna che chiunque abbia assistito a questo indiscutibile capolavoro, non può non raccogliere.
Basta chiudere gli occhi e ripensare ai loro, agli occhi di questi attori non attori più profondi e sinceri di qualunque verità, ai loro sorrisi che arrivano anch’ essi come una catarsi improvvisa, a cominciare da quello pieno di gratitudine, sollievo, complicità tra Seydou e il muratore incontrato nel viaggio, di fronte a quella faraonica fontana costruita nel deserto, per far contento il magnate e per salvarsi la pelle. Un momento di svolta, anche questo, che mi ha fatto increspare l’aorta.
Io Capitano, un film di Matteo Garrone. Con Seydou Sarr, Moustapha Fall, Issaka Sawagodo, Hichem Yacoubi.
di Alessandra Bernocco