C’è una pericolosa tristezza nei primi rumori delle attività mattutine altrui; sembra che il silenzio soffra, quando qualcuno lo rompe.
(Jonathan Franzen)
“In una toccante composizione sonora che cerca di restituire l’emozione del passaggio del tempo”, Riccardo Fazi e Claudia Sorace, in arte Muta Imago, tornano in scena a Roma, al MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo, con “Ashes”, la performance che nel 2022 è valsa alla compagnia i Premio Ubu come Miglior attore e Miglior Spettacolo Sonoro.
E in effetti i premi sono meritatissimi.
Non avevo ancora visto questo spettacolo, eppure, come soltanto può succedermi a teatro, casualmente, ma forse secondo un disegno più grande di me, mi sono ritrovata al MAXXI, un luogo che considero davvero molto suggestivo per la mia città, e questo pezzo teatrale performativo ha così aperto un varco dentro di me e ho sentito un’emozione forte, che ora vi racconto.
Del resto, faccio la critica per questo, per raccontarvi emozioni che potete scegliere di vivere anche da soli, andando per esempio a teatro, o perché questa volta non avete avuto il tempo di andare a teatro, e magari, leggendo una mia recensione, quelle emozioni le provate lo stesso.
Per me ogni volta è come vi portassi tutti nei miei occhi, ed è quindi una bella responsabilità intellettuale.
Ci sono quattro leggii per suoni e voci. Prima un silenzio. Sulle pareti ombre di gesti e di luci che spiegano già il dramma dello svanire. Le quattro persone che ci compaiono davanti sembrano ancora dormire, e poi morire, nei loro letti.
Respiri, sbadigli, piccole parole farfugliate nel sonno sembrano portarci nelle loro stanze, nelle nostre, con le finestre ancora chiuse, il letto caldo dei loro, dei nostri, corpi, e i sogni scomposti sulla soglia della loro, della nostra, giornata, già finita.
“Cosa succederebbe se potessimo rivivere la nostra vita daccapo?” – ci viene chiesto – cosa ricordiamo di quella già vissuta?
Singole parole, urla, rumori, angoli di cucina e micro interiorizzazioni devastanti.
L’operazione è quella di restituirci degli impulsi sonori, assieme a delle ombre, o a delle luci insopportabili, su singoli momenti deflagranti della nostra vita, e fare in modo che noi stessi, su quei suoni, ricostruiamo episodi personali vissuti e ripescati freudianamente nella memoria.
Inizia con la mattina, il rito del caffe, lo stesso che è diverso per ognuno di noi, chi lo prende a letto, chi in solitudine alla finestra guardando fuori, chi al bar in mezzo alla danza dei cucchiaini, chi alla macchinetta di un luogo freddo di lavoro senza soddisfazioni. Ma nessuno davanti a noi mima queste situazioni, o ce le suggerisce nella loro interezza, semplicemente sentiamo i passi in un corridoio, il tintinnio dei cucchiaini, il rumore freddo e vuoto della macchinetta, l’uccellino sull’albero che guardiamo dalla finestra, e ci immedesimiamo.
La ricostruzione è tutta nostra. Gestalt. Un’operazione psicologica del ripercorrere, indotti, per frammenti, la nostra vita nei singoli dettagli, che rimangono scolpiti a nostra insaputa nella memoria, dettagli ripetuti e automatizzati di continuo, sempre allo stesso modo e apparentemente dimenticati nei gesti automatici, a un certo punto invisibili al nostro agire, apparentemente annullati finanche nei suoni, come ovattati in una sorta di acquario che è il nostro sentire, e che invece ripercorsi ora forzatamente attraverso quei canali sensoriali privilegiati usati al recupero, la vista e l’udito, che prima hanno filtrato e reso indistinguibili i percorsi interiori delle nostre esperienze, adesso li ripescano come con degli artigli, e diventano il canovaccio del sé.
Così, dalle sensazioni miliardi di volte avute e registrate, e ora quasi svanite sullo sfondo, alle immagini e alle emozioni ritornate come schicchere del cuore, per l’operazione di ripristino emotivo, per quello che hanno provocato con la ripetizione del ricordo, fino a caratterizzare e raccontare a noi stessi la nostra stessa vita, ma poi la vita di tutti, attraverso quei piccoli impulsi ripetuti che sono comuni. Sarà quindi difficile rivivere diversamente la nostra vita, ormai destinata a essere quella che è, e che è stata, anche solo per i microimpulsi che l’hanno “impostata” nella ricezione e nella risposta intellettuale-emotiva della nostra mente, archivio di giorni e comportamenti, scatti emotivi e umori conseguenti.
Cioè noi viviamo il contenuto, e noi stessi, la nostra individualità/interiorità, solo attraverso il contenitore a cui da sempre apparteniamo.
Una sorta di mente “socializzata”. E da un urlo disperato, tutti ci ritroviamo in ospedale, ma nessuno è vestito da medico o da paziente, l’urlo lo abbiamo sentito e rivissuto dentro di noi, e tutti allo stesso modo, perché a tutti è capitato di urlare in ospedale, o sentire urlare in ospedale, in quello stesso modo, magari per la morte di un fratello o di un figlio, che non è necessario circostanziare. L’urlo basta per capire, rivivere, e piangere ancora, soffrire daccapo, che non possiamo più soffrire diversamente. Quell’urlo si imprime e si ripete per tutti noi come indistinto. Tutti urliamo dentro di noi allo stesso modo. Insieme un flusso di emozioni come un fiume in cui non si può isolare la singola increspatura dell’acqua per come scorre.
In macchina, chi con l’utilitaria, chi scappa al lavoro, chi va dall’amante, chi torna a casa dove non vuole tornare, ma tutti negli stessi rumori del traffico, gli stessi gabbiani striduli della nostra esistenza romana, rumori stradali assordanti, di acciai e clacson, e gabbiani ostinati e violenti. In cerca di prede o a difenderle, topi o merli, che abbiamo apparentemente silenziato nella nostra testa per non impazzire, e che invece sono il contenitore delle nostre emozioni. Appena al leggio si evoca un gabbiano, mi ritrovo sul Tevere, triste, con i miei pensieri ingombranti di suicidio.
Quei suoni di uccelli, solo quei suoni, insopportabili e dirompenti, mi fanno vedere i cieli tersi di questa città, il grigio di un fiume sporco e puzzolente, la gente sguaiata che suona e sorpassa a destra, il caos cittadino che ormai fa parte di me, che non posso più eliminarlo da me, e neppure in un’altra vita, seppure mi costringo a immaginarla diversa. Ci saranno per sempre quei gabbiani, e quei corvi e quelle cornacchie.
A un certo punto uno dei quattro performer dice “ho perso”. E c’è chi ha perso l’ombrello e gira per la casa dicendo “hai visto il mio ombrello?!”, e chi invece ha perso il controllo, chi sta perdendo un amore, e chi ha perso per sempre un figlio, o anche soltanto l’ipotesi di un figlio. Tutti lì davanti a pensare a cosa abbiano già perso, ormai per sempre, e se anche quello continua a dire ho perso l’ombrello, noi continuiamo a sentire soltanto “ho perso”, ed è drammatico, tutti i volti spenti, tutte le labbra smorte. Tutti abbiamo perso nella nostra vita ad ogni passo gran parte di noi stessi. E anche le voci della madre, del nonno, dell’amica con cui tante volte abbiamo fatto shopping, si stringono dentro di noi…perché non vogliamo perderle.
Se ricominciassimo la nostra vita daccapo, perciò, forse la ripeteremmo, un po’ perché non potremmo mai avere cieli senza gabbiani, dopo che per così tanti giorni della nostra vita i gabbiani hanno volato nei nostri cieli, e un po’ perché non vogliamo perderli i momenti che abbiam vissuto, anche quelli brutti, perderemmo le persone a cui comunque abbiamo voluto troppo bene, e sono nostri e di tutti, i gabbiani, sono la vita che non si può vivere altrimenti. E la fine è solo il racconto.
Muta Imago è una compagnia che seguo da tempo che da tempo fa lavori di introspezione audiovisiva, che opta per la ricerca oltre la parola, e che usa spazi innovativi per le sue performance.
La compagnia presenterà alla Biennale di Venezia “Tre Sorelle”, un altro bellissimo lavoro, e io mi auguro possa continuare a scardinare con questo stile le emozioni dei meccanismi emotivi che ci appartengono e che forse non riconosciamo più veramente come nostri!
di Chiara Merlo