Un grande vuoto pieno di grazia

Mi trovo ad imparare l'arte di perdere ogni giorno.
(dal film Still Alice di Richard Glatzer e Wash Westmoreland con Julianne Moore).

Non c’è catarsi e non potrebbe esserci, ma la bellezza è immensa. Questo dolore infinito che ti devasta l’anima ha generato la meraviglia: che è bellezza inattesa ma è soprattutto stupore, un senso latente di incredulità che continua a interrogarti a sipario calato. Su cosa sia giusto dire, fare, nascondere a chi si è scordato di sé. Se sia giusto proteggerlo, mentire, accondiscendere. Se controllarlo e spiarlo nell’intimità più riposta sia un atto di amore o soltanto un sopruso. E mentre provi a convincerti che è un atto di amore capisci quanta amorosa violenza si possa nascondere nel preservare.

Sto parlando de Il grande vuoto, spettacolo di Fabiana Iacozzilli e terzo capitolo della Trilogia del vento dopo La Classe e Una cosa enorme,  da poco riproposto al Teatro Vascello, con un sold out per sei serate.

Un viaggio feroce e pieno di grazia attraverso le vicende di una famiglia normale che si ritrova a vivere una situazione anormale, cercando di normalizzarla come si può. Di renderla allegra e inoffensiva per quanto è possibile, facendo in modo che il dolore sia sopportabile.

Ma è proprio nella spasmodica ricerca di un po’ di sollievo che arriva a sorprenderci la bellezza, l’evento che fuoriesce dal flusso e che non immaginavamo potesse accadere.

Foto Laila Pozzo

In una casa abitata da una donna malata di Alzheimer, attorno a una tavola apparecchiata per un pranzo qualsiasi, vicino ai figli e a una badante abituata a non andare per il sottile, si ripete sempre uguale la stessa scena di una vita che fu: quando tutto era nuovo, giovane e bello, la vita intatta e il presente carico di promesse e belle speranze. La consolazione arriva da lì, da quella scheggia di tempo andato che si ripresenta, ossessiva, come un appiglio al quale aggrapparsi per non affogare nella dimenticanza.

Un cortocircuito tra la memoria che irrompe selezionando sempre lo stesso ricordo, il solo in grado di non annientarti, e il tuo stato d’animo, la tua coscienza sbilenca, la sola che ti rende sopportabile l’esistenza.    

Sarà una manifestazione della malattia, quella di isolare momenti di gloria, di bellezza, di gioia che si vorrebbe rivivere, di convogliarli in un oggetto simbolico capace di contenerli e restituirli ogni volta che il vuoto si fa più grande e incombente, ma la matrioska che la nostra ripetutamente reclama, me la spiego così.  

Reclama la matrioska, avanti e indietro dallo scaffale alle sue mani, senza mai ricordare di averla già reclamata alla stessa maniera altre innumerevoli volte. Ma lì dentro c’è tutto e tutto ricompare, si ricompone, riemerge, strato dopo strato, involucro dopo involucro: il viaggio in Russia, l’accoglienza, la tournée di una compagnia di teatranti, il Re Lear d’avanguardia, la tempesta dove lei era Lear con tanto di corona e giustamente ce l’aveva con le figlie ingrate. C’è l’amore per il suo uomo, probabile unico amore, padre dei figli, morto da poco in un incidente di macchina che l’ha risparmiata e lasciata da sola.

In balia di chi nella matrioska non c’era e nonostante l’amore, la dedizione, la cura, non ce la fa più a reggere il gioco. A meno che non cominci a giocare sul serio, a meno che non entri nella matrioska con lei e se ne assuma il peso, abbracciando il ruolo che gli è consentito. E allora sipario, va in scena Re Lear. Il teatro, la bellezza. Anche con l’Alzheimer si può provare a convivere.

Foto Laila Pozzo

Siamo quasi alla fine dello spettacolo, anche noi provati dagli sforzi dei figli, esasperati, stanchi, non rassegnati, a presidiare le mosse di questa madre che non sa più chi sono, di questa donna che non sa più chi è, di questa attrice che sarà Lear per sempre. Oppure il vuoto.

Quel grande vuoto che urlava, tacitato con parole sconnesse, riempito di oggetti, accessori, indumenti,  montagne di cose accatastate sul tavolo, quel disordine pieno di doloroso non senso, trova un riscatto e una forma dando corpo al solo ricordo che ti fa sopravvivere.

Gran bel tributo al teatro che non ti abbandona e torna a soccorrerti quanto più ti allontani. Grande metafora.

Lo spettacolo tutto è un percorso indiziario di quel che sarà, puntellato di immagini, quasi metafore, della vita bohémien di due vecchi artisti che si dividono tra coccole tenerezze coccole baci e “perché mai ti ho sposato”.

I riferimenti dichiarati sono a Una donna di Annie Ernaux e al romanzo Fratelli di Carmelo Samonà. Ma a me, fin dalla prima scena, sono venuti in mente Ella & John, i due adorabili vagabondi in camper del film di Paolo Virzì interpretato da Helen Mirren e Donald Sutherland, a sua volta tratto dal romanzo di Michael Zadoorian In viaggio contromano.

Non proprio un camper ma quella utilitaria rossa che domina la scena a inizio spettacolo, ai minimi termini, che deve averne viste di tutti i colori, da cui i due entrano ed escono ogni volta dimentichi di qualche cosa di indispensabile, tipo le chiavi per avviare il motore, accusandosi a vicenda, ripetendosi in modo snervante le stesse identiche raccomandazioni, goffi, impediti, distratti da ricordi che prendono il via da una foglia secca depositata sul cofano, ecco, quella macchinina che è stata ad un tempo libertà e protezione, sarà anche la testimone del loro ultimo viaggio.

Dal quale lei sola farà ritorno, scortata, soccorsa, ma non più accordata.  

Nel ruolo un’attrice che non so come ho fatto a non conoscere prima: perché Giusi Merli mi ha ricordato la prima volta che vidi Judith Malina. La sua sincerità senza riserve, la disposizione a mettersi a nudo, la generosità e la delicatezza nell’infondere in una donna invecchiata nella mente e nel corpo, un’illusione di vitalità.

Accanto a lei Ermanno De Biagi, anch’egli ben calibrato nel rendere lo spaesamento di un vecchio che non ce la fa nemmeno più a reggere le buste della spesa. Francesca Farcomeni e Piero Lanzellotti, nelle parti dei figli, conquistano mano a mano un peso specifico che si dà innanzitutto nel rapporto con la madre e con la malattia che li sovrasta, in un rimbalzo tesissimo tra verità e destabilizzazione.

La ripetizione ossessiva diventa una sorta di contagio simbolico dalla madre alla figlia, anch’essa disperatamente compresa e ogni volta interdetta nel raccontare la stessa identica scena di un incidente occorso a un’amica: un incidente mortale, perché “la morte ti può sorprendere da un momento all’altro”.

Una figlia che mentre si domanda fino alla fine, “cosa c’è nella testa di mia madre quando mi dice che il blu è loquace” si mette a nudo lei stessa e dichiara la sua (e la nostra) paura di morire.

Nel ruolo della badante, Mona Abokhatwa, per la prima volta in scena, con disinvoltura. 

di Alessandra Bernocco

Il grande vuoto, uno spettacolo di Fabiana Iacozzilli/regia Fabiana Iacozzilli/drammaturgia Linda Dalisi, Fabiana Iacozzilli/dramaturg Linda Dalisi/con Ermanno De Biagi, Francesca Farcomeni, Piero Lanzellotti, Giusi Merli e con Mona Abokhatwa/ progettazione scene Paola Villani/luci Raffaella Vitiello/musiche originali Tommy Grieco/suono Hubert Westkemper/costumi Anna Coluccia/video Lorenzo Letizia/aiuto regia Francesco Meloni/scenotecnica Mauro Rea, Paolo Iammarrone e Vincenzo Fiorillo/fonico Jacopo Ruben Dell’Abate, Akira Callea Scalise/direzione tecnica Francesca Zerilli/assistenti Virginia Cimmino, Francesco Savino, Veronica Bassani, Enrico Vita/collaborazione artistica Marta Meneghetti, Cesare Santiago Del Beato/foto di scena Laila Pozzo/ufficio stampa Linee Relations/produzione Cranpi, La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello Centro di Produzione Teatrale, La Corte Ospitale, Romaeuropa Festival/con il contributo di MiC – Ministero della Cultura, Regione Emilia-Romagna/con il sostegno di Accademia Perduta / Romagna Teatri, Carrozzerie n.o.t, Fivizzano 27, Residenza della Bassa Sabina, Teatro Biblioteca Quarticciolo