Che cosa vi impedisce la facoltà di parlare? Un vizio congenito, la volta del palato che non ha avuto il tempo di formarsi come avrebbe dovuto. Per conseguenza le parole, invece di trovare quella parete naturale che permette loro di rimbalzare all’esterno, si perdono nei condotti interni, fino a smarrirsi nelle cavità più oscure della vostra persona, ecco, vi ho portato la parete che vi manca, la porta verso la realizzazione, un palato d’argento, amico mio, come nei racconti delle fate ... Questo palato è uno scrigno, e non è da tutti possedere le parole chiuse in uno scrigno d’argento.
(La pulce nell’orecchio, Georges Feydeau)
Premessa: sono andata a vedere La pulce nell’orecchio proprio perché non amo Feydeau, non amo il vaudeville, e di questi tempi di spassarmela a teatro non sono nemmeno tanto in vena. Ma sono andata perché sapevo che c’erano tanti attori che stimo e che mi interessa seguire e volevo capire se sarebbe bastato.
Bene: ho passato la prima mezz’ora a ridere come un’idiota dalla seconda fila del Teatro Vascello, a mezzo metro dal proscenio, dove Tindaro Granata, combinato da Charlot con le braghe calate, ci comunica che “abbiamo venticinque minuti per parlare insieme”. Peccato soltanto che il suo personaggio non sia in grado di pronunciare le consonanti a causa di un “vizio congenito”. E come quegli stonati che non smetterebbero mai di cantare, per l’assillo di tutti, Camillo (questo il suo nome) non tace: per il divertimento di tutti. Si comincia così, che in modo più esilarante non sarebbe possibile. E non se ne esce.
Perché questo succede quando gli attori ci sanno fare: ti tirano dentro, ti fanno lo sgambetto e ti mettono in trappola. E una volta che ci sei è difficile uscirne prima della fine.
Possibile che una storia di corna sospette, fregole insoddisfatte, relazioni clandestine, pulsioni imbrigliate sotto un doppiopetto d’ordinanza, possa tenere viva l’attenzione per due ore e venti senza intervallo? La quasi solita storia che si dipana e consuma tra borghesi in disarmo, rigogliose servette, giulive signore e le di loro strategiche amiche, tra scambi di persona, intrallazzi, doppi sensi, riconoscimenti, camuffamenti, lettere anonime finite nelle mani del destinatario sbagliato, tranelli orditi con buona fede serafica, insomma una storia che procede secondo i tòpoi più usurati della commedia, possa ancora trovare una ragion d’essere e un giustificato spazio di rappresentazione?
Possibile. E se non mi convince chi parla addirittura di indagine psicologica, credo invece che questa commedia possa offrire agli attori tante occasioni per giocare al teatro in modo serissimo.
Carmelo Rifici, che ha firmato la regia e la traduzione (questa insieme a Tindaro Granata), scrive nelle note che con La pulce nell’orecchio Feydeau “affronta il rapporto tra lingua, potere e relazioni umane”. E in effetti il linguaggio è centrale, poiché ogni personaggio è informato da una propria parlata, che definisce non soltanto l’indole ma un’appartenenza precisa, l’origine, le aspirazioni, i desideri che covano, magari nascosti dentro un armadio o nella stanza di un equivoco albergo dove regole e licenze liberamente si scambiano (mi viene in mente che una precedente commedia di Feydeau s’intitola proprio L’albergo del libero scambio).

Qui, oltre allo spagnolo di un caliente e furibondo marito sudamericano convinto di essere stato tradito, la regia ricorre a un romanesco verace e colorito, a un americano creativo, persino all’accento piemontese, non casuale visto che in campo c’è anche un certo Vittorio Emanuele. Il tutto restituito in modo iperbolico, in modo da rendere relazioni già di per sé grottesche e improbabili, ulteriormente complicate.
Come se il difetto di pronuncia dovuto a una congenita malformazione del palato da cui è afflitto Camillo, fosse soltanto la sporgenza di un’inettitudine collettiva. Ora assecondata, ora contrastata, proprio come la protesi che gli ha donato il dottore, un prodigioso palato d’argento, continuamente perso e ritrovato.
Nessuno si capisce ma tutti ci provano. Nessuno si incontra ma tutti si inseguono. Si corre e ci si rincorre, si inciampa e ci si rialza, si fanno gestacci e ci si ricompone. Fino alle prossime braghe calate. Fino al prossimo travestimento, al prossimo ruolo dietro al quale nascondersi o palesarsi con effetto sorpresa: dietro una parrucca spudoratamente finta, un abito dai colori sgargianti, un paio di baffi da malfattore. Alcuni attori sono impegnati in più ruoli, ma tutti sono sottoposti a un forsennato giro di giostra. Perché per girare, girano tutti. Su una pedana girevole, appunto, dove le scene che da copione si svolgono in un interno borghese e in un albergo a ore si succedono con soluzione di continuità. Non c’è differenza, non ci sono arredi, non ci sono segni che identificano i due luoghi. E dentro ribolle la stessa identica vita, che qua e là viene a galla dando clamorosi indizi della sua incontinenza. Tutti a bordo, liberi tutti.

Feydeau dirigeva gli attori come un direttore d’orchestra, pare addirittura usasse il metronomo, però i movimenti, le entrate e le uscite di scena, le sparizioni e le comparsate, erano sostenute da arredi, porte, finestre, solidi punti di riferimento che una mano agli attori la davano. Qui invece non c’è nulla di solido, tutto è instabile e se non rotola via sotto i piedi è soltanto grazie alla geometria. La scena infatti consta di tanti cubi e parallelepipedi coloratissimi, come i costumi, ma di gommapiuma, che da una parte attutiscono i colpi ma dall’altra non garantiscono un sostegno per l’equilibrio e l’orientamento. Ma siccome non si può sgarrare di un solo secondo, ché sennò il meccanismo si inceppa, l’orologio si ferma e la giostra non gira, gli attori sono continuamente messi alla prova, sorvegliatissimi in quanto a memoria scenica e sincronismo.
A dare il tempo è anche la musica dal vivo, tastiere e batteria, suonata dagli stessi attori, con grande piacere di chi assiste.
La scelta di affidare ad alcuni di loro anche l’esecuzione musicale, in un bell’andirivieni di dentro e fuori parte, che non è mai un fuori fuori ma un naturale scivolare come per inerzia verso quello che la scena chiede al momento, è sicuramente vincente.
Così come inventarsi, nel vorticoso rincorrersi e ritrovarsi, delle bolle sospese di intimità e leggerezza, perché succede che ciascuno di noi, quando si ferma per un momento, quando si osserva a rallentatore, voglia calarsi la maschera e non soltanto le braghe.
Gli attori meritano tutti di essere citati: oltre a Tindaro Granata, sono Giusto Cucchiarini, Alfonso De Vreese, Giulia Heathfield Di Renzi, Ugo Fiore, Christian La Rosa, Marta Malvestiti, Marco Mavaracchio, Francesca Osso, Alberto Pirazzini, Emilia Tiburzi, Carlotta Viscovo.
di Alessandra Bernocco
Lo spettacolo è in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 6 aprile 2025.
La pulce nell’orecchio di Georges Feydeau/Regia: Carmelo Rifici/Traduzione, adattamento e drammaturgia: Carmelo Rifici e Tindaro Granata/Scene: Guido Buganza/Costumi: Margherita Baldoni/Luci: Alessandro Verazzi/Musiche: Zeno Gabaglio/Coaching movimenti acrobatici: Antonio Bertusi/Coaching clownerie: Andreas Manz/Realizzazione maschera: Alessandra Faienza
