Datemi il tempo, datemi i mezzi, e io toccherò tutta la tastiera – bianchi e neri – della sensibilità contemporanea. Vi canterò l’indifferenza, la disubbidienza, l’amor coniugale, il conformismo, la sonnolenza, lo spleen, la noia e il rompimento di palle.
Luciano Bianciardi
Proverò a riscrivere tutta la vita non dico lo stesso libro,
ma la stessa pagina, scavando come un tarlo scava una zampa di tavolino
Luciano Bianciardi
Dedicarsi a uno scrittore. Cominciare con un suo libro (magari quello alchemico, di mute relazioni) e poi, non poterne più fare a meno, spolparsi ogni singola parola scritta. Così succede a ogni critico letterario che voglia conoscere fino in fondo un autore, e così deve essere successo a Gian Paolo Serino con Bianciardi. Forse, non ancora sazio, ha sentito l’urgenza di questo ulteriore viaggio: un libro sui suoi libri, e sugli articoli, per non fermarsi mai di leggerli una volta finiti di leggere (e quante volte avrei voluto fare la stessa cosa con Thomas Bernhard!). Scriverne e riscriverne, strappargli pezzi, con quell’ansia di “possederlo” fino all’osso quel nome, che alla fine pensi di averlo fatto tutto tuo, solo tuo, e invece.
Certo per parlare di un autore con la propria scrittura bisogna anche evitare di lasciarsi troppo attrarre dal suo vissuto. Vite sempre così malconce ma allo stesso tempo così interessanti quelle degli scrittori, che diventano invadenti. E ti danno quasi una spiegazione della tua. Condannate a essere esistenziali, attraversate da un dolore che non ti è sconosciuto e che ti fa insistere a capire. Insomma, non ti liberi facilmente se ti immedesimi. Scruti con quegli stessi occhi. Ti illudi di farlo.
Di ogni autore amato devi avere perciò proprio la necessità di vedere con la mente tutti i suoi scritti oltre la sua vita. Attraverso quegli scritti devi poter ricostruire tutto il lavoro fatto. Averne in particolare recepito il metodo di scrittura, che è una cosa diversa dallo stile. Lo stile di chi scrive non gli appartiene mai del tutto, il metodo di scrittura invece si, è un “modo” unico. È quel lavoro di interiorizzazione per come esclusivamente è stato “concepito”, diversamente ossessionati dal contesto, oppure ostinati nell’eidetizzazione della vita di tutti quelli che c’hai intorno (pure quelli che soltanto ti passano accanto).
Quel metodo esistenziale fa della solitudine una solitudine sperimentale. Non si può né apprendere né insegnare. Ci si può soltanto riconoscere, trovarsi in quel contenitore, usare più o meno una simile modalità di indagine. Ma ogni volta è soltanto una sovrapposizione, e con quella bisognerà fare i conti. Il tuo modo non sarà mai del tutto corrispondente (diversamente creativo forse, sebbene influenzato). Gli occhi che hai portato dentro a quelle parole non tue ti danno solo un’idea di ciò che ugualmente ti rappresenta. Quelle parole, per come sono state messe insieme, ti danno forse giusto il peso di quello che tu a quelle aggiungi. Eppure in tutto ciò che percepisci trovi la sostanza.
La lettura è così, è sempre decadente, fatta di sensazioni, dove anche il pensiero è ogni volta soltanto intuito. “Precaria”. E così la scrittura. Lì lì ogni volta per cadere.
Di conseguenza, il significato di “precario” (aggiunto a “esistenziale”), già nel titolo, fa di questo libro a cura di Gian Paolo Serino uno strumento davvero prezioso, eppure evidentemente non troppo facile da usare. Non è un’analisi dei testi, non è una biografia, è una raccolta di frammenti messi insieme lungo un percorso di lettura del tutto soggettivo. È un diario di lettura. Un modo tutto personale che semplicemente invita a entrare nel mondo di Bianciardi, apprezzarne le invettive, la semiotica, la lotta politica, ancor prima della scrittura di Eco e Pasolini (perché i Grandi c’hanno sempre altri Grandi dietro).
Inizia si con una biografia, ma sono pochi semplici passaggi necessari che riempiono le prime pagine di migrazioni forzate, interessi letterari, traduzioni, città mal vissute e intensa attività culturale, con amori finiti e altri da cominciare, vocazioni politiche difese con estremo individualismo e carriere giornalistiche fallite, ma perché fallito era già lo spirito del giornalismo italiano fin dai primi del ‘900. Una vita, dal 1922 al 1971, vissuta con disagio e contrapposizione a tutto, a concludersi con condizioni di salute, pure quelle volute precarie, lasciate all’alcol e all’emarginazione, pur di sfinirsi in una solitudine essenziale, voluta estrema. Comunque, tutto un cattivo modo di gestire il successo, ricevuto e smaltito fin troppo tardi.
Subito dopo, Gian Paolo Serino introduce la raccolta di parole e immagini scelte con dentro una evidente voglia di “rifare”, tirata fuori da quella poetica con cura, emergente anche del nostro tempo. «Tutto sta “franando”, tutte quelle luci al neon, tutto il nostro ottimismo si riduce a scempi ambientali ed economici. Non c’è niente da “risanare”, come dicono da anni politici di ogni partito, ma è tutto da rifare». Ed è con questo animo deluso che verranno affrontati questi scritti, richiamati a ogni pie’ sospinto per una ripetuta lettura della società.
Bianciardi pagò il prezzo di quella sua rivolta personale contro l’assetto politico del tempo proprio con la “coerenza” dei suoi scritti, senza mai vendersi ai poteri forti, senza mai credere né cedere al consumismo. Il consumismo ci consuma, andava dicendo continuamente, e così è stato! E poi contro la televisione, e la culturalizzazione. Prima di Pasolini, e con lo stesso sguardo accorto al linguaggio di Eco. «I nostri presentatori della televisione avevano successo e lo hanno, in quanto riassumono ed esprimono certi difetti, certe tare nazionali». Il più mediocre è quindi il più bravo (anticipando la “Fenomenologia di Mike Buongiorno” di Umberto Eco), «egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello».
Serino a un certo punto dice, richiamando uno dei libri più significativi di Bianciardi, “La vita agra”, che egli aveva bene compreso come il cemento avrebbe ucciso la rivoluzione, facendo delle grandi città, e di Milano in particolare, il simbolo della spregiudicatezza e dell’ingiustizia del potere in Italia. «Bastano pochi mesi», scrive Bianciardi, «perché chiunque si trasferisca qui e si svuoti dentro, perda linfa e sangue, diventi guscio: tra 20 anni tutta Italia si ridurrà come Milano». «Da questa morte individuale», aggiunge Serino, «nasce la morte civile e culturale […] non ci sbatti più neppure contro. Ci svanisci dentro».
Altro argomento, pure dei nostri giorni: il neoqualunquismo neocapitalista. Gli intellettuali “accreditati” discutono (in televisione) di una sorta di filosofia totale che ha il sorriso sghembo e malizioso di Celentano.
A metà libro poi cominciano i frammenti. Su come si diventa intellettuali cercando di scrivere il meno possibile, con la consapevolezza che «è nel ceto medio e spesso mediocre che è più probabile si reclutino gli intellettuali di domani». Sulla fatica di disimparare: emanciparsi proprio da quegli intellettuali mediocri e dalla scuola delle “correzioni” che troppo spesso mediano la cultura, distributori di un sapere “pappetta” che dà quell’impressione di conoscere, ma soltanto per avere letto “in sintesi”, per avere ricevuto più o meno in citazioni il peso dell’istruzione. Che il lavoro culturale abbia invece un’idea di futuro, e non si rifugi sempre, inconsolabile, in un passato che ormai ci appare come definitivamente morto. Superare il provincialismo, il dilettantismo e quella sua sterile erudizione. Riuscire a far piangere.
Sul finire, le questioni più politiche. Le ragioni dei contadini e il comunismo interpretato dai muratori. Il modo di marciare di quelli che vivono in città, “la colonna vestita di grigio, diretta chissà dove”. Il senso di chi si trova in mezzo, e cerca di mediare veramente, con tutto se stesso. Così sentiva di fare con i suoi lettori Bianciardi. Mediare. E le donne? Cosa pensano le donne era per lui un’altra esigenza irrinunciabile. “In che misura sono le donne ad assorbire l’ideologia che fa comodo al padrone?” Di qui: la necessità di un entusiasmo.
La gente non protesta, perciò puoi sentire quella stanchezza che Bianciardi chiama “scattante”, dappertutto, con odore di morto, soprattutto nelle “ditte”. il progresso è un triste gioco. Servirebbe una società basata sul consenso e non sull’autorità. Se non fosse, aggiungo io, a distanza di cinquant’anni, che la politica del consenso ha fatto degli italiani una massa di ebeti che dicono di si a tutto. Perché il consenso deve essere consapevole e non indotto, non merce di scambio con i diritti irrinunciabili.
Ma la parte su cui di più mi sono soffermata è la parte sull’agonia. Gli altri non ti lasciano morire. Fino a che servi ti spolpano vivo senza darti nulla in cambio. È questo nuovamente il concetto utilitaristico. Tu presti il tuo corpo come schiavo e non puoi più né riposarti né guarire. «L’agonia continua fino a che ci sia il modo di levarti di corpo qualcosa ancora, e fino a che tu abbia la forza di continuare. Poi lasciano che tu muoia», ma «morire è difficilissimo», e io, «io mi oppongo».