Guarda quel che hai più caro, immagina che sia in fondo alla via che prendi e non su quella che lasci; pensa che siano musici gli uccelli che cantano; l’erba del prato un ricco tappeto; i fiori belle dame e i tuoi passi una deliziosa movenza di danza. Perché il dolore mostra meno i denti e meno ha forza di mordere se l’uomo ne ride e non se ne cura.
(John Gaunt da Riccardo II, Shakespeare)
Voglio ricordare Paolo Graziosi dietro un fascio di rose rosse che quasi quasi gli coprivano il volto mentre si affrettava a raggiungere il Teatro del Fontanone, sul Gianicolo, dal piazzale della fontana attraverso la scalinata, per omaggiare l’attrice e coccolare la figlia: Viola stava per debuttare con un monologo impegnativo e bellissimo, Aiace di Ritsos, e lui fremeva e gongolava per lei.
Delle nuove leve della regia e della scena è stato complice e sostenitore, basta dare uno sguardo ai suoi impegni negli ultimi anni.
Ma i suoi giovani colleghi e amici li seguiva anche quando non era direttamente coinvolto, come spettatore attento e partecipe, contento dei successi e piacevolmente stupito dell’intraprendenza a cui gli artisti di oggi sono spesso ‘costretti’. Sapeva bene che a volte tocca inventarsi il lavoro, trovare una nicchia accogliente in cui germogliare. Paolo guardava a queste invenzioni con favore autorevole, anzi le incentivava, le promuoveva.
Le volte che l’ho visto seduto in platea ad applaudire!
Vado random ma mi viene in mente uno spettacolo al Brancaccino. In scena c’era Valeria Perdonò, la Cassandra del suo Agamennone, spettacolo diretto da Alessandro Machia e scritto per lui da Fabrizio Sinisi, una riscrittura radicale da Eschilo tarata sulle sue corde. Bene, Valeria aveva appena debuttato con un monologo autografo, sul femminicidio, un lavoro importante, condotto benissimo, e Paolo c’era, seduto in prima fila, sinceramente curioso e amorevole. E dopo gli applausi, ricordo gli abbracci, i complimenti e le parole belle di esortazione. “Ma davvero l’hai scritto tu? Brava brava, insisti, continua”.
Era un attore immenso, un segno forte e infallibile che non potevi scordare. La voce inconfondibile si offriva all’imponenza dei grandi classici e alla tragedia quotidiana, quella dei bassifondi, laterale e quindi umanissima che lui riusciva ad attraversare dandogli forma nella dispersione totale, per farcela meglio comprendere e penetrare.
Il corpo asciutto e asciugato dagli anni, il volto scavato, anche dolente, dirompente nella sua forza espressiva, equivoco, anche, come fosse attraversato da pensieri sotterranei e pericolosi, ha inchiodato tanti registi di cinema e televisione, e ha impresso a molti film un senso ulteriore.
Gianluca Jodice, regista del recente film su D’Annunzio, Il cattivo poeta, gran bella ‘riserva’ di attori di teatro di cui gli siamo grati, dal suo profilo fb lo saluta così: “Una delle pochissime cose che solleva l’anima degli affannati registi sui loro affannati set, è la presenza di un grande attore. Grazie, Paolo”.
Alessandro Machia lo ha diretto più volte in questi ultimi anni e gli cedo volentieri la parola, a lui e ad altri amici che gli hanno voluto bene.
« Paolo Graziosi era un attore immenso, radicale, feroce, privo di retorica, dritto. Era l’Attore per me, ed è stato il mio primo attore davvero importante: quel mistero di violenza e tenerezza assoluti, quegli opposti che in lui coesistevano perfettamente. Ho imparato molto dell’attore grazie a Paolo. Andava all’origine dei testi, sapeva bene che il linguaggio è mascheramento e lui cercava al di sotto. Ricordo ogni passaggio della nostra esperienza dell’Agamennone. Fabrizio Sinisi ha scritto la drammaturgia su di lui, letteralmente. Ricordo soprattutto il prima delle prove: lui era a Torino e mi chiamava leggendomi il testo al telefono, che gli avevo inviato appena consegnato dall’autore: me lo leggeva con una grazia assoluta, a bassa voce: era un momento sacro per me, di conoscenza della poesia di un attore straordinario che a sua volta scopre il testo e lo ripete al regista sussurrandolo, con un rispetto, un’innocenza e una consapevolezza rari . Ricordo che, in prova, non amava mai rifare quello che aveva fatto il giorno prima, ma voleva cercare ancora, provare sempre, era instancabile e generosissimo: una benedizione per un regista. Ricordo le litigate durante le prove, bellissime e vertiginose, che poi si scioglievano subito dopo in energia utile per andare in scena, e tu capivi che erano un atto d’amore per il teatro, il suo modo di cercare la carne viva, di venirti a cercare oltre i ruoli, perché neanche il teatro bastava in fondo. In nessun altro attore ho visto l’amore per il teatro come in Paolo, quell’amore che va alla radice, che non è bisogno di stare su un palco, apparire, è molto di più: è identità, è desiderio di conoscere, di praticare l’umano nella relazione, nel corpo a corpo anche feroce, ma l’umano. Gli ho voluto molto bene anche se non gliel’ho mai detto, ed è stato un privilegio raro intrecciare un tratto di strada. Non lo dimenticherò mai. »
Gianluigi Fogacci lo conobbe subito dopo il diploma, nel 1987, al suo primo ingaggio: “ Paolo era già un attore importante, affermato, ma mi trattò subito con una familiarità e una semplicità tale che dopo pochi giorni avevo come la sensazione di averlo sempre conosciuto. Ci siamo ritrovati nel Tito Andronico di Stein dove lui era strepitoso. Non dimenticherò mai che durante le prove era a disagio, faticava a raccogliere gli stimoli che Stein gli dava incessantemente, era anche insolitamente nervoso con i giovani colleghi, ma a pochissimi giorni dalla prima il suo personaggio esplose letteralmente e all’improvviso tutto quello che chiedeva Stein era lì sul palcoscenico, ma andò anche oltre la richiesta registica. Noi ragazzi eravamo meravigliati da tanta bravura. Quando lo spettacolo andò a Parigi all’Odeon, Roger Planchon gli propose un grande ruolo per uno sceneggiato televisivo su Luigi XIV, il ruolo di Mazzarino. Rimase poi a Parigi alcuni anni e quando tornò in Italia ci trovammo ancora insieme, sempre con Stein, tante volte, l’ultima in Riccardo II”.
Due spettacoli, Tito Andronico e Riccardo II, che gli hanno visto accanto anche Almerica Schiavo: “Paolo era straordinario. In prova era delicatissimo, paziente, ascoltava Peter con una grandissima umiltà. Sempre pronto a imparare anche se era bravissimo e affermato. Questo era un punto fondamentale della sua forza, l’umiltà e lo studio costante. Una perdita enorme per tutti noi”.
“Un’anima piena di coraggio e avventurosa in scena e nella vita – dice Alessandro Averone, anch’egli con Paolo in diversi spettacoli diretti da Peter Stein-. Mi ha sempre colpito il suo sguardo sulle cose libero, curioso e sempre in apertura con la sana e creativa incoscienza di chi conserva un animo perennemente giovane”.
Massimo Venturiello, Timone d’Atene nell’omonimo Shakespeare diretto da Walter Pagliaro una trentina d’anni fa, ricorda Paolo – Apemanto come “una grandissima personalità. Attore di rara originalità, incisivo come pochi sanno essere. Mai come per lui il termine artista è quello giusto per definirlo; in scena come nella vita. Paolo Graziosi è stato un vero grande artista! Personalmente poi oggi se n’è andato un caro amico al quale sono stato legato da un sincero affetto e che purtroppo non potrò mai più riabbracciare. Questo soprattutto mi addolora infinitamente”.
In quello stesso spettacolo c’erano tanti giovani neodiplomati alla scuola del Teatro Stabile di Torino – Giorgio Lupano, Olivia Manescalchi, Domenico Castaldo – tre quarti della compagnia era composto da loro, e tutti concordano su due punti fermi: il rigore e insieme l’inclinazione allo scherzo. Irene Ivaldi, che lavorò ancora insieme nelle tragedie a Siracusa, racconta della sua “capacità di prendersi in giro”, della sua casa “sempre aperta”, del suo “rigore di attore vecchio stampo che non mollava finché una parola, anche una sola, non gli era assolutamente chiara”. Guido Turrisi, anch’egli giovane di compagnia, dice che “ai registi dava del filo da torcere per la sua razionalità e passione analitica; la disciplina ferrea quando si doveva provare e la disposizione a giocare quando era tempo di farlo”.
E per chiudere e dirgli buon viaggio, Graziano. Graziano Piazza, per Paolo molto più che un collega.
“Tanti aggettivi potrebbero ricordare il padre di mia moglie Viola, che è stato mio collega e Maestro fin da quando Viola, bambina, seguiva il padre e me nel Tito Andronico di Peter Stein. Paolo è stato un vero Maestro per tutto ciò che indicava nel suo Fare, nel suo Pensare, nel suo Dire, in scena e fuori, ai fornelli come nel condividere ricci di mare sugli scogli, un Maestro proprio per la forza, anche irruente, con cui ti coinvolgeva e poi il sorriso lungo, penetrante, luminoso con cui indicava la Via della Vita profonda e Vera, senza fronzoli e neanche particolari riti, se non della Vita stessa! Sono stato un uomo fortunato, insieme a Viola, e lui ci continua a insegnare tanto anche con la sua morte. Portatore sano di Vita Vera!”
di Alessandra Bernocco