Macbeth al Globe Theatre con la regia di Daniele Salvo. Il vero tradimento è quello dell’amicizia.

«Se viviamo, viviamo per calpestare dei re, se moriamo, viva la morte quando con noi muoiono principi»
(1 Enrico IV, V.II)

Che lavoro complesso questo di Shakespeare! Paradossalmente il più corto, ma destinato a essere inesorabilmente allungato nelle sue più esigenti interpretazioni teatrali per quella sua complessità, ambiguità, per quegli strati di approfondimento che registi e attori ne possono fare, dare. E così gli spettatori, i critici e gli studiosi.

È la tragedia sulla brama di potere (semplicisticamente), e cristallizza in conseguenze fisiche e psicologiche, ma anche relazionali e sociali, l’orrore del tradimento strumentale al potere: il delitto compiuto ai danni di chi si fida di te, mentre approfitti subdolo della sua buona fede.

Ma consideriamone qualche premessa.

Il re per Shakespeare è sicuramente quello che viene più tradito fra tutti, forse perché ormai è una figura anacronistica, deve cadere, deve essere abbattuto, devono essere minate le ragioni politiche della sua stessa sovranità. E spesso viene tradito proprio dai suoi “figli” (o dai fratelli). Il tema del parricidio nel regicidio è ricorrente, e anche quello del fratricidio (Amleto), proprio come metafora che spinge “da dentro” le monarchie medievali verso lo Stato Moderno.

In questa rappresentazione, a un certo punto, non a caso si sentirà dire proprio a Macbeth (generale del regno e futuro re) durante il funerale di re Duncan di Scozia, suo predecessore assassinato (da lui stesso assassinato): “…pare che i nostri sanguinari cugini abbiano trovato asilo in Inghilterra e Irlanda. Non solo non confessano il loro spietato parricidio, ma riempiono le orecchie altrui di fantasiose menzogne…” (ciò comporterà la fuga di Malcolm e Donalbain, i figli di Duncan spaventati dall’uccisione del padre, verso i regni che Macbeth appunto cita). Allo stesso tempo Macbeth, dopo aver ucciso il suo re, per diventare re, e averne messo in fuga i figli, tradisce anche l’amico Banquo e compagno di battaglie. Decide che proprio dopo quel solenne falso funerale, Banquo venga raggiunto e ucciso in un agguato insieme al figlioletto (Banquo morirà, in una sorta di fratricidio). Insomma, nell’escalation di orrorifiche sue azioni, è lo stesso Macbeth che usa, nel giustificare quel regicidio (e il suo stesso assassinio), l’ipotesi popolare che è più credibile, e cioè quella del parricidio.

Ora, non è un caso che Shakespeare venga definito “un filosofo moderno dal cuore antico”, dagli ideali tradizionali di lealtà e coraggio, un filosofo politico, “strumento di critica contro i tiranni”, ai quali consegna infatti sempre un finale definitorio terribile, anche se dopo una spirale altrettanto tragica di vicende irreversibili che riguardano tutti. E anche se questa volta il re assassinato è un re “buono”, un re che per aver riconosciuto al suo fidato Macbeth ogni onore alla battaglia (tanto da eleggerlo, dopo aver sconfitto il nemico e usurpatore Macdonwald insieme al meno ambizioso e più umile Banquo, signore di Cawdor), è proprio per quella sua fiducia all’Altro, nel crederlo generoso suo fedelissimo, e l’inaspettato tradimento conseguente, che saranno posti al centro del cambiamento storico culturale che egli impone con la sua scrittura, non limitandosi a prevederlo, ad auspicarlo. Shakespeare, quindi, sconfigge sempre i suoi tiranni per volontà letteraria. Ma attraverso quale processo “dialogico” con il pubblico?

“Shakespeare ha una capacità unica nell’affermare grandi verità teoriche attraverso la narrazione degli eventi e le battute dei suoi personaggi (spesso secondo la tecnica della rottura della quarta parete), di volta in volta affidate al fool, al coro, al saggio o alla riflessione interiore del personaggio principale” (dall’idea di Allan Bloom, ripresa da diversi articoli di riferimento).

Anche in questo testo l’autore chiama in causa gli spettatori a fronte di uno dei conflitti più tragici offerti e meglio messi in evidenza: il conflitto tra necessità e libertà dell’individuo, tra essere (non essere) e dover essere (che non per forza si adegua a quella che poi sarà la tematica portante della filosofia di Hegel e degli Stati Moderni del ‘900, come qualcun altro pure ha sostenuto). Il suo “dover essere” non è né mistico né materiale…le cose succedono per un elemento di ribellione insito proprio nella tragedia.

Anche questa di Macbeth è cioè la tragedia della “scelta”, che è alla base di ogni trasformazione individuale/sociale, che in Shakespeare è la tragedia dell’umanesimo, in quel conflitto intimo e collettivo che vorrebbe superare ogni prospettiva socio-politica verticale, credendo invece superiore, vincente (almeno nel lungo periodo) la capacità “umana” di autodeterminarsi ed essere artefici della propria sorte, e insieme di quella degli altri. Pur considerando in qualche modo ancora aderente quella idea tutta Machiavellica di governare, secondo cui anche la fortuna, il destino, possono essere utili all’uso: e perciò nell’ordine dei fatti si può essere leone e volpe, forza e astuzia, ciò a seconda delle vicende e delle circostanze.

Le tre streghe che a un certo punto predicono il futuro (in parte), trascurandone alcuni essenziali presupposti, evidenziandone invece gli elementi illusori e fuorvianti, inducono il protagonista a “credere” di poter, dovere, voler essere un vincente. In tutto ciò è la matrice della sua scelta. Che anche le scelte siano fittizie e pilotate?!

Del resto le streghe predicono che Macbeth sarà il “nuovo” re, ma che solo i figli dell’amico e generale Banquo saranno gli eredi di quel regno! E per questo Macbeth ha ucciso Banquo (non riuscendo però a ucciderne i figli…i figli, gli eredi nei lavori di Shakespeare possono e devono essere il cambiamento? Altrimenti rischiano di impazzire come Amleto)

Insomma, in Shakespeare l’inesorabile è che “non” possa vincere il male, il male è solo uno strumento (il male non il dolore), e, alla luce di quello che fin qui è stato detto, seppure muta necessariamente la realtà sociale e personale dei personaggi e del contesto, il male non raggiunge il suo risultato. Ottimistico? Neanche la tentazione, nella forma seduttiva di una donna, per quanto pervicace e insistente, un’ostinata quasi surreale Lady Macbeth in questa scena, permetterà l’ascesa sanguinosa del marito nella suggestione dell’amore manipolatorio e contraffattivo per raggiungere il risultato ricercato: raggiungere l’apice di un sistema politico senza averne il merito, per come ideato paradossalmente da una donna. Le donne in Shakespeare possono essere Ophelia o Gertrude, Lady Macbeth o Lady Macduff, emancipate fino a voler sovvertire il sistema o completamente sacrificali. Verso il cambiamento.

Attraverso la psicologia dei suoi personaggi si può ritenere dunque che la questione del potere non si possa comprendere attraverso una lettura univoca. Da qui le varie interpretazioni registiche, tenendo conto che l’espediente narrativo più usato nelle opere di Shakespeare è la congiura, e poi l’impazzimento di alcuni personaggi che proprio quella congiura non se l’aspettano o la rifiutano. Sono dei puri (come Amleto figlio), uomini e donne romantiche che proprio non si capacitano di essere vittime della cattiveria, o di un sistema che ormai non funziona più, e che non ha più senso. Questo il congegno intrinseco.

Più che il male come entità metafisica, perciò, emerge più spesso in Shakespeare la cattiveria terrena, la slealtà, la vigliaccheria, la crudezza, l’intenzione maligna di pochi che apparentemente hanno la meglio su tutti gli altri: una sorta di elite di cattivi che diventa sistemica. E spesso questi cattivi hanno una matrice politica non di poco conto. Sovversivi dell’ordine costituito, ma senza cambiamento, non sono ribelli. Sottoculture, non controculture. I buoni invece sono i ribelli.

La bellezza di Shakespeare è che questi pochi cattivi che rovinano tutto ciò che ancora è apparente vengono in ogni caso puniti, in quel suo racconto di vicende nefaste e in una serie concatenata di eventi che a un certo punto inaspettatamente si ritorcono contro proprio quella elite, quei pochi cattivi che hanno osato travolgere la tensione armonica del corpo sociale come lo conoscevamo. Sono quelli che alla fine vengono sacrificati o si sacrificano da soli per il cambiamento. Il suicidio nelle tragedie di questo autore anticipa molti degli studi sociologici del novecento sul tema.

Il crimine è a fondamento dello Stato (Machiavelli), o lo Stato ha le sue radici nella paura della morte violenta (Hobbes)?

E veniamo alla regia di Daniele Salvo, che non me ne vorrà se mi sono dilungata un po’ su alcune mie riflessioni prodromiche e per me necessarie ad analizzarne il valore.

Il regista di questa comunque molto suggestiva e interessante rappresentazione ha secondo me forzato e alterato alcuni aspetti e alcuni personaggi dell’opera, volendo restituire come più preminente soltanto un aspetto “politico” sugli altri come attuale: il male visto come lobby, la setta del male come carbonara, massonica. Attribuendo così a ogni distorsione sistemica del Corpo Politico, attraverso la metafora del regno in decadenza, la causa di un male metafisico e diabolico.

Alla congiura ha come sostituito il complotto (tema in verità davvero molto attuale, e accattivante, e di consenso), e alla stessa, l’associazione segreta (se vogliamo anche tipica dell’Inghilterra nel sec. XVIII), caratterizzata perciò da un particolare simbolismo. Il tutto quindi si è colorato di esoterico e satanico, cupo e inquietante (se di inquietudine se ne dovesse aggiungere al testo), un umore nero ultraterreno come congenito alla struttura in versi e altra anima delle cose temporali. Lo spettacolo è stato reso oltremodo suggestivo, con cambi di voci e distorsioni portati all’esorcismo, e con una Lady Macbeth come chiave di lettura, la figura più satanica del contesto, molto brava tecnicamente ma risultante troppo caricaturale e dominante. Tanto che il protagonista ne è risultato depauperato in forza emotiva e drammaticità.

In questo disequilibrio registico ho perso di vista i personaggi, e ha preso piede in me solo un’atmosfera, un liquido nero, tra rumori metallici di guerrieri in marce e scorribande che hanno preso il possesso di ogni mia percezione e poi queste voci stridule di streghe soprannaturali, bambini con altrettante vocine flebili e sillabazioni horror e Lady Macbeth che urlava dentro di me come un “mostro” isterico contro il povero Macbeth, l’eccellente Graziano Piazza, ridotto però a mellifluo usurpatore manipolato, sottratto di quella drammaticità che sarebbe stata appunto il motore del cambiamento epocale. La regia ha cioè secondo me spinto Lady Macbeth a soverchiare il ruolo di Macbeth. E questa operazione ha sminuito il pregio stesso dei validissimi attori messi in campo, a scapito della rappresentazione.

Costumi fetish fuori tempo, corna e tutine in simil lattice, stivali da cavallerizzo e ambientazioni sessuate mi hanno poi come distolto dal tema. Ho cominciato a seguirne le citazioni (Kubrick).

Eppure il disequilibrio, come sempre, restituisce l’intuito, è il momento della rottura anche in questa visione esacerbata ed estremizzata, a tal punto che ne è risultato finalmente il senso.

Il nobile scozzeze Macduff , il superlativo Alesandro Albertin, con la sua misura e serenità del ruolo (voluta dal regista?), è lui che regge su di sé tutte le sorti di ogni accadimento registico, come del resto, e non lo avevo capito così bene, è anche nel testo.

È colui che non tradisce (come per gli stessi motivi non tradisce Amleto), è colui che non riesce a tradire, è l’amico che non crede nel tradimento dell’amico.

Macbeth invece non se ne importa, fa ammazzare trucidare i suoi figli inermi, e quella sua coraggiosa moglie (vera donna emancipata del testo), che difende i suoi bambini come una vera eroina moderna senza l’appoggio di un uomo (eccellente anche Marta Nuti in questo ruolo).

Macbeth vuole annientarlo come l’ultimo buono rimasto.

Macduff, che si è defilato da quel liquido nero, che si è messo ai lati di quella scena terribile fatta di buio e acciaio, esorcismi e stivali da guerra, non volendo assumersi il peso dell’uccisione del re, alla fine si fa necessaria trasformazione. Macduff, che fino all’ultimo non ha reagito, che se n’era andato da quel luogo di sangue, viene richiamato dall’urlo dei suoi figli a porre fine alla sequenza dei delitti.

Il ribelle non reagisce fino a quando non decide spinto anche dagli eventi di essere necessariamente il cambiamento, ma non per se stesso, per il regno, per la comunità. Gli uccidono i figli e lui capisce che è ora di ritornare per liberare il regno.

La vera scelta individuale tra necessità e libertà è fatta per gli altri, anche quando tutto è perduto.

E questo fa Albertin, perfettamente inserito nel ruolo, salvando il senso del testo, e anche di questa regia, in questa stranissima rappresentazione.

Chiara Merlo

MACBETH di William Shakespeare – Regia di Daniele Salvo

visto al Gigi Proietti Globe Theatre Silvano Toti

Personaggi e attori:

Macduff, nobile scozzese:
Alessandro Albertin

Terzo sicario / Giovane Seyward: Antonio Bertusi

Ross, nobile scozzese:
Simone Ciampi

Primo sicario / Vecchio Seyward:Martino Duane

Fleance / Figlio di Macduff / Secondo messo /servo:
Caterina Fontana

Seconda Strega:
Giulia Galiani

Donalbain / Menteith:
Gabrio Gentilini

Lady Macbeth:
Melania Giglio

Portinaio / Medico / Soldato:
Massimiliano Giovanetti

Capitano / Caithness / Sicario:
Francesco Iaia

Terza Strega:
Mària Francesca

Malcom, figlio di Duncan:
Alberto Mariotti

Banquo: Marmorini Alessandro

Angus / Primo Messo:
Matteo Milani

Lady Macduff / Dama / Spettro:
Marta Nuti

Lennox, Nobile Scozzese:
Riccardo Parravicini

Macbeth:
Graziano Piazza

Prima Strega:
Pietta Silvia

Duncan, Re di Scozia:
Carlo Valli

MacDonwald /Giovane Seyward /Soldati:
Gabriele Crisafulli

Ufficiali / Seguito di Duncan / Seguito di Macbeth:
Lorenzo Iacuzio

Servi / Spettri / Apparizioni:
Roberto Marra

Traduzione e adattamento:
Daniele Salvo

scene:
Fabiana Di Marco

Costumi:
Daniele Gelsi

Musiche:
Marco Podda

Assistenti alla Regia:
Raffaele Latagliata, Matteo Fiori, Gloria Trinci
Maestro D’Armi

Combattimenti:
Antonio Bertusi