Il crogiuolo è ambientato nel 1692 durante la caccia alle Streghe di Salem,
quando venivano impiccati gli scomodi accusati di stregoneria e la religione
era lo strumento attraverso il quale il potere teocratico esercitava i suoi abusi
Il 9 dicembre 2022 in Iran è stato impiccato Mohsen Shekari, 23 anni,
il primo di undici ragazzi condannati a morte, processato come Nemico di Dio
per avere bloccato una strada e ferito un paramilitare durante le proteste a seguito della morte di Masha Amini, arrestata e uccisa dalla polizia morale iraniana perché
il velo non le copriva completamente i capelli
A monte de Il crogiuolo ci sono due diverse condizioni dello spirito: l’ignoranza disarmante che ti consegna a superstizione e manipolazione e, di contro, la strumentalizzazione di questa stessa ignoranza da parte di una teocrazia che non cede le armi, anzi ne approfitta per riconquistare terreno.
Da una parte il volgo sguarnito che sembra quasi chiedere di essere ingannato (vulgus vult decipi, ora come allora), dall’altra chi provvede a farlo contento, perché se così accade finisce pure che ti ringrazia, plaude, sostiene. E allora ergo decipiatur.
Parto da queste circostanze ancora calde per dire che quando l’ignoranza la fa da padrona la capitolazione è dietro l’angolo.
Se ci metti il carico da novanta, fatto di ristrettezze e promesse campate in aria, è fatta. Finché dura, ma intanto è fatta.
Se poi ci aggiungi la paura – di non farcela, di finire per strada, di ammalarti e non poterti curare, di morire in miseria, di finire in galera e finanche sul rogo – allora eccoti nelle fauci del primo millantatore. Che assume forme diverse a seconda di epoca, ambiente, condizione sociale. Dittatori, taumaturghi, cartomanti, esorcisti, giudici empi e interessati, tutti si nutrono della paura e della beata ignoranza di poveri diavoli.
Ma c’è un salto ulteriore che precede l’alienazione della coscienza e il fanatismo delle azioni: la paura quando perde il suo oggetto, quando il suo oggetto non ha più un nome e una ragion d’essere. È la paura dell’ignoto, di qualcosa di imperscrutabile, che sfugge al controllo. Allora ecco che ci costruiamo la nostra gabbia –il nostro tranello – e diamo credito a sedicenti custodi di un nuovo ordine fatto di regole rigide che ci fanno sentire al sicuro. Sì, ma da cosa? Da ciò che un nome non ha ma che abbiamo bisogno che esista. Come? Nominandolo noi, nel modo più prossimo, più facile, più alla nostra portata. L’antico meccanismo del capro espiatorio. Che agisce in modo consapevole e strumentale o inconscio e sotterraneo. Ma agisce. E se non individua, inventa. Nero, migrante, drogato, comunista, femmina, strega. Strega. La caccia alle streghe.
Con la caccia alle streghe entriamo a gamba tesa in questo spettacolo.
Miller ha scritto Il crogiuolo in pieno maccartismo rievocando la caccia alle streghe di Salem nel XVII secolo, quando gli indigeni, soprattutto, e gli scomodi, venivano accusati di stregoneria e condannati per impiccagione dai coloni inglesi.
Ma a lui la caccia alle streghe è servita per raccontare il rapporto dell’America e dell’occidente con il comunismo, realizzando la sua intima nemesi di amico tradito.
Fu infatti l’amico Elia Kazan a denunciarlo in quanto comunista alla Commissione per le Attività Anti-Americane ma fu, d’altra parte, la sua stessa integrità a farlo finire sulla lista nera della Commissione, rifiutandosi di denunciare a sua volta amici e colleghi non allineati, anti-americani e filo-comunisti: il prezzo che gli si chiedeva per essere sostanzialmente lasciato in pace.
Insomma, Miller si tenne fuori da questa spirale di delazioni e ricatti, ne pagò il pegno, ma scisse Il crogiuolo.
La nemesi dello scrittore. Che non arretra di fronte alla stoltezza e alla miseria umana e sembra qua e là farsene gioco, a cominciare dal tuonante reverendo che parla di mutui e atti di proprietà e dal reverendo esorcista che mentre chiede incondizionata ubbidienza, sospetta sia nato un partito contro di lui.
La regia di Filippo Dini ampiamente cavalca il ‘ridicolo’ di alcuni personaggi, e quindi il contrasto con la terrigna dimensione del suo, il contadino John Proctor, di sua moglie Elisabeth e della vecchia Rebecca, donna saggia e pacata che smorza i bollori sinceri e fittizi e con tono rassicurante invita a non dare la caccia agli spiriti maligni.
Entrambi i personaggi sono interpretati da Manuela Mandracchia, di cui c’è molto da dire e nulla da ridire ma questo si sapeva. Calibratissima nel toccare le corde solide e delicate di Rebecca, portatrice sana di un aldilà tutto sommato benevolo, attenta nel restituirle la giusta postura, senza eccessi accademici ma precisa e vera, Mandracchia, nel ruolo di moglie, percorre con Dini le fasi di un rapporto di amore moderno, integro, nonostante gli scossoni e il tradimento di lui con la giovane Abigail.
Un rapporto litigioso, anche, ma in grado di resistere a cadute, minacce e sfide che irrompono da fuori: non solo da parte di Abigail, che rivendica ragioni, avanza pretese e innesca la catena diabolica di accuse, ma anche da parte del reverendo che variamente li bacchetta e interpella su catechismo, frequentazione della chiesa, dieci comandamenti (“Tra lei e me i sappiamo tutti”).
Il Proctor di Dini è un contadino irriverente che in chiesa non ci va perché non vuole vedere ‘luccicare i frutti del suo lavoro accanto ai candelabri d’oro’, un osservatore attento ma appartato di un ingranaggio che non gli appartiene, mai pensando di finirci inguaiato. È sano, schietto, perde le staffe di fronte all’ipocrisia di potenti e baciapile, conosce il paradosso e sa tener testa al giudice, fino ad esplodere e a compiere il suo j’accuse definitivo.
Il suo, che non si chiama fuori, e anche il nostro, che non ci chiamiamo fuori. Qui si sfonda la quarta parete e si parla ai giudici, al popolo, alla gente di tutti i tempi e di tutti i luoghi e lo si fa con tanto di microfono.
“Vedo la lurida faccia di Lucifero ed è la mia faccia e la vostra. La faccia degli uomini come me che non hanno il coraggio di combattere per liberare l’umanità dall’ignoranza, e come voi che non avete il coraggio di ammettere quello che sapete nel profondo del vostro cuore maledetto, che qui si commette una frode”.
L’impressione è che nel personaggio di Proctor si riassuma la sproporzione tra peccato ed espiazione così come si dà in un clima di caccia alle streghe in cui delazione e calunnia dettano le regole: se ti vogliono male, basta uno sgarro per finir sulla forca.
Dini ne attraversa i diversi passaggi fino al ripiegamento finale dove il conflitto tra l’uomo e l’eroe si fa radicale. E se l’uomo vuole vivere, l’eroe si deve sacrificare. Se all’uomo si risparmia la pelle in cambio di una confessione mendace, estorta per non compromettere l’ordine costituito, all’eroe si preannuncia la forca. O menti o muori. A te la scelta, a te il peso delle tue decisioni.
Una scena, questa, di grande intensità, che vede Proctor nelle braccia di Elisabeth, ormai coperta di stracci, prima di allontanarsi portandosi dietro il carico umile del disprezzo. “Se non confesso è per disprezzo” perché ‘voi sapete che questa è una farsa, una bugia nera’.
Sono due personaggi positivi, John ed Elisabeth, non solo perché sono la leva e la buona coscienza contro un apparato mortifero fatto di inganno, malafede o superstizione, ma perché rappresentano il disincanto moderno, la maturazione verso la luce, lo scatto consentito dal sacrificio e dalla fiducia in valori collettivi.
Questo, soprattutto, ancor più del disprezzo. Perché c’è un po’ di comunismo nella scelta di Proctor, forse. Quel po’ che Miller coltivava tra sé, pur senza avervi mai aderito, non stando al gioco.
La regia si mantiene in equilibrio sul doppio binario farsa e verità, oscurantismo e ragione, atmosfere oniriche e spaccati quotidiani, e molto beneficia del disegno luci di Pasquale Mari e delle scene di Nicolas Bovey, allestite su pedane girevoli agili e funzionali. La gestualità è ampia, a tratti espressionistica, e pare pensata per confermare la farsa: dalla danza tribale delle giovani donne a inizio spettacolo, contrappuntata dalla chitarra elettrica di Aleph Viola, suonata dal vivo, alle convulsioni da indemoniate, architettate a dovere per esser credibili (brave Fatou Malsert come Tituba, Virginia Campolucci come Abigail, Caterina Tieghi come Mary Warren), ma anche la lite di gruppo resa come una pantomima a inizio secondo tempo, una scena di grande impatto visivo, sotto una bandiera americana consunta che ha cessato di sventolare.
Ma la farsa, il registro spesso grottesco, serve bene la causa in cui entrano di diritto almeno altri tre capi d’accusa che arrivano fino a noi e che hanno a che fare con la manipolazione, con l’arroganza del potere o la sua mala gestione. Uno: la vittima presa per sfinimento, finisce per confessare quello che l’inquisitore vuole sentirsi dire e magari anche per credere essa stessa a quanto confessa. Due: se la vittima confessa il popolo stolto si sente liberato, il colpevole è punito, la catarsi è compiuta. Tre: il consenso del popolo va alimentato in modo credibile. Prendilo pure per i fondelli ma non fartene accorgere, non lo provocare, non toccargli il benefattore di turno, chiunque esso sia.
Il malfattore in carriera che ti mette a tacere con un pugno di spiccioli oppure un’anima pura come Rebecca, beniamina del popolo, anch’essa condannata al patibolo, per la quale si implora la grazia. Per lei, ma prima di tutto per la credibilità del sistema. ‘Il popolo, signor giudice’. Di fronte al suo sacrificio finirebbe per non credervi più.
Suona più o meno così l’appello al giudice del reverendo, uno che ha capito come funziona la macchina, e prova a farla girare.
Uno spettacolo importante, corale, forse un po’ lento nel decollare, ma dopo la prima mezz’ora ti catapulta dentro e non ne esci più.
Il crogiuolo di Arthur Miller, traduzione Masolino d’Amico
regia Filippo Dini
aiuto regia Carlo Orlando
scene Nicolas Bovey
costumi Alessio Rosati
luci Pasquale Mari
musiche Aleph Viola
collaborazione coreografica Caterina Basso.
Produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale / Teatro Stabile di Bolzano / Teatro di Napoli – Teatro Nazionale
con il sostegno della Fondazione CRT
in accordo con Arcadia & Ricono Ltd per gentile concessione di ICM partners c/o ICM Partners c/o Concord Theatricals Corporation.
Interpreti e ruoli:
Valentina Spaletta Tavella: BETTY PARRIS / SARAH GOOD
Gloria Carovana: SUSANNA WALCOTT / ANN PUTNAM
Virginia Campolucci: ABIGAIL WILLIAMS
Caterina Tieghi: MARY WARREN
Didì Garbaccio Bogin: MERCY LEWIS
Filippo Dini: JOHN PROCTOR
Manuela Mandracchia: ELISABETH PROCTOR / REBECCA NURSE
Fulvio Pepe: REVERENDO JOHN HALE
Andrea Di Casa: REVERENDO SAMUEL PARRIS
Pierluigi Corallo: THOMAS PUTNAM / GIUDICE HATHORNE
Nicola Pannelli: VICEGOVERNATORE DANFORTH
Paolo Giangrasso: FRANCIS NURSE / HERRICK
Gennaro Di Biase: GILES COREY / HOPKINS
Aleph Viola: EZEKIEL CHEEVER
Fatou Malsert: TITUBA
Prossime date:
Teatro delle Muse, Ancona, dall’ 8 all’11 dicembre 2022.
Teatro Sociale, Trento, dal 15 al 18 dicembre 2022.
Teatro LAC, Lugano, dal 21 al 22 dicembre 2022.
di Alessandra Bernocco