Metro Goldwyn Mak - racconti dalla metropolitana
L’intera batteria di scale mobili che dal binario della linea A conduce verso le due direzioni della B è ferma per manutenzione da diverse settimane. Ma qui a Termini, stamattina, sembra di essere dentro una puntata di Giochi Senza Frontiere. Giurerei di aver udito Guido Pancaldi e Gennaro Olivieri conteggiare, con inconfondibile accento francofono, lo storico “un, deux, trois” seguito dal trillo di un fischietto, prima di essere trascinato dentro una fiumana umana, senza argini, col suo carico di zaini in spalla, occhi incollati sui telefonini e mille imprecazioni nelle lingue più diffuse al mondo, proprio come dentro un “fil-rouge”. Mi inerpico sui gradini che conducono verso il livello superiore, cercando di non calpestare nessuno dei mille piedi impegnati, insieme ai miei, a portarci in vetta sani e salvi. Arrivato su, percorro il corridoio che conduce alla banchina direzione Laurentina col passo veloce di chi deve salvarsi la vita sfuggendo ad un predatore. Maledizione! Qui corrono tutti e la vita sembra faticosa già alle 7:50 del mattino. Sarà per questo che mi sento come un minatore sbucato fuori da un cunicolo dopo diciotto ore ininterrotte di picconatura a centinaia di metri sotto il suolo. Poi, finalmente, la visione di una banchina traboccante di voci e viaggiatori, segna la fine della corsa ad ostacoli, seppur aggiunga qualche chilo d’ansia alla mia mattinata. “Treni in arrivo. Laurentina 3 minuti. Laurentina 6 minuti.” Il display appeso al soffitto recita in caratteri verdi e gialli il tempo ufficiale di attesa del prossimo convoglio della metropolitana. Il messaggio sembrerebbe scolpito nella pietra visto che campeggia lì da un tempo effettivo di oltre 6 minuti e, da un tempo percepito, di almeno 20. Sulla banchina opposta, c’è un frate, con tanto di saio e bagaglio. Aspetta il treno direzione Rebibbia leggendo un libricino, probabilmente di preghiere. Accanto a lui, un giovanotto in carne con zaino in spalla e cuffiette, che indossa una t-shirt sulla quale una scritta bianca spicca senza lasciare spazio ad interpretazioni di sorta: “chittesencula”. Sembra la rappresentazione umana di un Taeguk, dove lo Yin e lo Yang combaciano, equilibrandosi vicendevolmente. Vorrei fotografarli, ma come un rompiscatole apparso dal nulla, ci pensa il treno in arrivo sull’altro binario a rubarmi l’attimo e a nascondere il tutto. Succede sempre così. Guardandomi intorno scopro cortometraggi di quotidianità che sfociano in dinamiche curiose o stravaganti. Perché certe attese sono barattoli di vetro nei quali la vita prende scorciatoie, ci mostra storie rapide e furtive, e ci fa percepire dialoghi appassionanti, che un osservatore attento riesce a cogliere attraverso il vetro prima che il tempo si esaurisca. Non è stato difficile notare il formarsi di coppie, lo sbocciare di famiglie tra individui che un attimo prima erano, tra loro, perfetti sconosciuti sospettosi come alieni difronte ad una specie diversa, e poi entrati rapidamente in confidenza, o in voluttuosa intimità. Ho osservato nascere amicizie improvvise tra persone che si sono inizialmente mandate a quel paese dopo essersi urtati nella calca, oppure, ho visto progettare viaggi commentando i tabelloni pubblicitari di una nota agenzia della capitale, o ancora, stipulare accordi, scambiarsi merendine o cantare in falsetto, tutti insieme appassionatamente, un pezzo di Harry Styles. Si ascolta un fruscio in sottofondo. Sono i frenetici polpastrelli di generazioni Z impegnate in rapidissimi tap, flick e swipe, che sembrano costringere gli smartphone ad ansie da prestazione e, in contrapposizione, gli sbadigli di quelli dei boomer digitali nella loro titubante lentezza. Finché, improvvisamente, una mano invisibile avvinghia il barattolo, coprendone i contenuti. E l’attesa svanisce. Il display racconta ora di un “Treno in arrivo”. Un gracchiante altoparlante invita a non oltrepassare la linea gialla. Infischiandosene dell’avvertimento e bypassando la prudenza, frotte di piedi disobbedienti si ammassano a ridosso o oltre quel confine colorato che divide la staticità dell’attesa dal dondolio di movimenti traslanti. La musica ora è cambiata. Niente più fratellanze, né picnic, né fiorellini, ma una nuova corsa, ognuno per sé stesso, alla conquista di un posto dentro un parallelepipedo fatto di metallo, plastica e vetro. Sono riuscito ad entrare anch’io, a fatica, mentre un ragazzo di colore, correndo disperatamente, arriva scivolando con un movimento armonioso e serpeggiante, riuscendo ad infilarsi nell’ultimo spiraglio che le porte in chiusura concedevano, senza per altro sfiorarle. Tutto mentre dentro quell'affollatissima scatola su rotaie, un tipo bizzarro e rossiccio, osservandolo ammirato, ha sentenziato perentoriamente: “Aho, mortacci tua, ma che sei n’anguilla?”