Metro Goldwyn Mak - racconti dalla metropolitana
Forse mi ritrovo nella prosecuzione del sogno di questa notte, in cui nuotavo affannosamente, impacciato e smanacciante, dentro un mare in burrasca di affettati, insaccati e salumi di ogni genere e sapore, e dove, tentando di non farmi risucchiare dall’abisso, mi ingozzavo, mio malgrado, facendo incetta di grassi saturi ed insaturi in percentuali da sballo. Una roba che, son certo, se esistesse un dio vegano, mi fulminerebbe all’istante per pensieri peccaminosi, troppo sconci e altamente colesterolici. Il fatto però è, che oggi, stiamo tutti spalmati e pressati, carne macinata e farcita dentro un vagone ripieno come il budello di una soppressata di Calabria, con tutto il suo armamentario di pepe nero, pepe rosso e peperoncino, secondo i comandamenti scolpiti da qualche barbuto illuminato, sulle sacre e piccanti tavole della tradizione silana di Acri e Serra San Bruno. Ognuno qui dentro si prepara ad attraversare la stagionatura con le proprie esperienze mistiche, ed a fare i conti con ingredienti che sanno di frustrazione, imbarazzo e, in certi casi, scampoli di piacere. Vicino a me, nella calca, odo una conversazione che sembra abbastanza chiara nei contenuti: “Scusi signò, nun volevo, ma qui nun se riesce a movese come si vorrebbe…” – “Si capisco, ma lei deve stare più attento a dove mette le mani…” – “Che je devo dì? Qui come te movi acchiappi quarcosa…” – “Scusi cosa intende?” – “Niente… Me so espresso male… Volevo dì che stamo tutti troppo appiccicati… e inevitabilmente…” – “Inevitabilmente che? Lei le mani se le deve tagliare, ha capito?” – “Oh signò, se dia na carmata... io nun l’ho fatto apposta…”. Tutt’intorno sono sbuffi d’ansia e risolini, soprattutto di quelli che, dimenticando di essere parte del macinato, si distraggono e si sollazzano nelle diatribe altrui. C’è anche chi è costretto a vivere esperienze olfattive che avvicinano al bordo del burrone. Se qualcuno pensa che gli odori e la loro individuazione, siano porte di accesso verso conoscenze diverse e più approfondite da quelle fornite dal vedere, o dall’ascoltare, allora, il tipo più in là che confabula a toni bassi col vicino di strazio, costretto com’è a sorbirsi qualcosa, a suo dire, molto diverso dalle essenze di mandarino, probabilmente pensa di aver inquadrato perfettamente l’uomo che gli sta martoriando le narici: “Questo c’ha ‘na colonia d’alghe sotto l’ascelle… ma dico io, ma come te funziona er naso? Nun te senti quanto puzzi?”. Però le essenze, si sa, sono ingannevoli, non si lasciano mai afferrare completamente e a volte si ribellano ribaltando le sentenze, proprio come il proprietario dell’ascella incriminata: “io non puzza e tu stronzo”. Invece io mi ritrovo schiacciato tra uno zaino troppo acuminato di uno studente e la schiena sudaticcia di un uomo occhialuto ed altissimo, mentre osservo, a tre-quattro centimetri dai miei occhi, una mano femminile abbarbicata al supporto di sostegno. Ha una batteria di artigli, che a chiamarle unghie mi si potrebbe accusare di falsa testimonianza. Incombe sul mio faccino mattiniero lavato e rasato di tutto punto, minacciosa a tal punto che, a mio avviso, un T-Rex potrebbe averne timore e starsene prudentemente alla larga. Sono sciabole, altro che unghie. Lunghissime, laccate di nero lucido ed attraversate da striature giallo-oro, proprio come il manto di una tigre del Bengala, ma in reverse. Le guardo atterrito come si guarda un boia che brandisce un’ascia da decapitazione. “Prossima fermata Manzoni. Next stop Manzoni”. Non si sfugge. La vocina registrata della gentil donzella, in un bilinguismo di ordinanza, annuncia la prossima tappa, preallertando gli occupanti del vagone a prepararsi all’eterna diatriba tra quelli che tendono a sfondare come un ariete i portoni dei castelli e quelli che urlano “fate prima uscire”, dentro una giostra di incastri e disincastri che si materializza nelle dinamiche di saliscendi ad ogni fermata. C’è un ragazzo con una ragnatela tatuata sull’avambraccio. Piantato davanti alle porte di ingresso del vagone, incurante della loro apertura e del flusso di gente che spinge per uscire ed entrare, sembra vivere dentro una bolla che lo esclude dal resto del mondo, con una cuffia a pompargli musica mentre gioca, quasi ossessionato, una partita di “Royal Match” su smartphone. Alle sue spalle, un tipo piuttosto ansioso e poco rassicurante, attende solo per un attimo che il salamelecco inchiodato sulla porta si sposti, consentendogli di uscire, ma poi, immediatamente spazientito, lo spinge fuori in malo modo, senza guardarlo negli occhi e proferendogli uno scocciato “A Spiderman, te levi de mezzo o me te devo accollà pure a te?”, aprendo così il varco alla diaspora verso l’esterno. In ingresso invece, immancabilmente, si materializza una figura di “ottimizzatrice di vuoti”. Con la tiritera solita di chi, puntando ad uno spazio minuscolo tra la calca e pensando ad una gommosità esagerata degli occupanti della soppressata su rotaia, comincia a martellare cantilenante: “Vi spostate che devono entrare tutti? C’è vuoto lì più avanti, vi spostate? Lì c’è spazio, vi fate più avanti? Volete spostarvi che lì c’è spazio?“ Finché, da quel vuoto, ad interrompere la donna, si leva la voce del nano che lo occupa: “A signò, se arrivi fino a qua er vuoto t’o faccio vede io…”.