Prendi un angolo del tuo paese e fallo sacro, vai a fargli visita prima di partire e quando torni
(Franco Arminio)Guten Morgen Tarsia, un racconto di fine estate.
A Nord della Calabria, nella bassa Valle dell’Esaro, incastonata tra la costa ionica e la tirrenica, dove il Fiume Crati si apre verso la piana di Sibari, sorge un piccolo abitato di origine normanna il cui nome, Tarsia, evoca immediatamente quello di una sua contrada, conosciuta agli occhi della storia, con il nome di Ferramonti. L’immagine è quella del più grande campo d’internamento italiano, fatto costruire dal governo fascista a seguito delle leggi razziali del 1933.
Pochi minuti dividono ciò che rimane del campo, oggi divenuto Museo Internazionale della Memoria Ferramonti di Tarsia, dal piccolo abitato posto a 192 metri sul livello del mare. Pochi chilometri da percorrere lungo una strada costeggiata, da una parte, da distese di oliveti, le cui piante incarnano quell’idea di ‘ulivo benedetto, baciato dal sole’, esaltato da Pascoli; dall’altra parte della strada le pale dei fichi d’india che, con i suoi frutti color corallo, parlano della bellezza e dei colori della Calabria distesa nel cuore del Mediterraneo.
La Calabria, divisa tra le contraddizioni dell’aridità della sua terra e la generosità della sua gente; tra piante di alberi testardamente sempreverdi, quasi a comprovare la caparbietà dei suoi stessi abitanti, e le terre rosse e fertili che costeggiano il blu del mare. Mille sfumature dei tanti dialetti che percorrono le sponde dei fiumi, si diramano tra l’orgoglio dei calabresi e la fragilità di quella parte di natura ormai arresa ad un dissesto idrogeologico di una terra violata da una cementificazione selvaggia.
La Calabria divisa tra le sue disordinate città e i piccoli centri abbarbicati sui rilievi montuosi.
Raggiungere Tarsia è un po’ come riappropriarsi di radici culturali perdute, quelle di un’identità legata all’alternarsi delle stagioni, alla semplicità di una realtà stravolta da un consumismo capace di falsificare, quantizzandola e massificandola, ogni singola identità.
La luna piena di fine agosto, anche grazie all’incanto del bacio con Saturno, ha reso il paese ancora più incantevole, una piacevole sorpresa per chi, giungendo di notte, ha avuto modo di scoprirlo per la prima volta.
La luce cinerea ha mostrato la bellezza di Tarsia, borgo solo nella misura della sua struttura urbanistica, ma che resistendo all’incalzare e all’affermarsi della globalizzazione, dimostra di essere paese, come ce ne sono ancora tanti in terra di Calabria.
Paese, per la sua capacità di continuare a essere comunità, legata a un forte sentimento di condivisione di valori comuni. La gente si riconosce perché parla la stessa lingua, quella fatta di un lessico familiare dettato da una memoria collettiva che resiste alle insidie del tempo.
Paese, così come da sempre siamo abituati a pensarli e a chiamarli; paese che resiste al vezzo e alla moda di farsi definire retoricamente borgo, perdendo di fatto quell’identità linguistica che da sempre ha caratterizzato il nostro ritorno al paese.
Tarsia come simbolo di resistenza all’omologazione della società dell’immagine, alla spersonalizzazione attuata da una cultura di massa che rende tutti terribilmente uguali, disposti in fila davanti alle catene della grande distribuzione, pronti a consumare merce, pagandola attraverso codici numerici responsabili di aver smaterializzato anche il denaro, privandolo del peso del suo valore.
Tarsia che si racconta attraverso il suo Museo della Memoria, perché la memoria è importante anche se la storia, molte volte, sembra non insegnarci niente, per poi assistere, disarmati e sconcertati, agli orrori del nostro tempo.
Tarsia che resiste, con i panni stesi ai fili dei balconi delle casette che costeggiano i vicoli, con i gatti davanti casa senza timore che possano perdersi. Le piante sui davanzali delle finestre e davanti i portoni, le strade pulite, perché in una piccola comunità ognuno spazza davanti l’uscio della propria casa.
Anche la giovane Nina Weksler, durante la sua detenzione nel campo di Ferramonti, aveva apprezzato la cura di quel piccolo paese, abitato da contadini generosi che avevano saputo resistere alla disumanizzazione della guerra, conservando un sentimento di religiosa umanità.
Nina era nata a Leningrado da genitori ebrei e, come tanti altri deportati, arrivò nel campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia. Una storia di prigionia raccontata dalla stessa protagonista in un libro, una sorta di diario dell’intima esperienza di segregazione.
Nina, di Ferramonti e di Tarsia, ne fa un racconto di salvezza e anche lei, nei suoi mille giorni di detenzione, quando insieme al maresciallo Gaetano Marrari, poteva raggiungere il centro di Tarsia, apprezzava la cura delle strade, i panni bianchi stesi al sole e la generosità della gente del posto.
Sutta ‘a vota è uno slargo nascosto tra i vicoli stretti del centro storico di Tarsia e, nella sera del 31 agosto, è diventato il luogo in cui abitare la memoria, della resistenza e della partecipazione che, attraverso il rito collettivo della messa in scena teatrale, mette le persone davanti allo specchio della storia e delle emozioni.
Una sera in cui la memoria, per essere raccontata, non ha avuto bisogno di edifici deputati, quanto di una comunità capace di aggregarsi davanti alla sua stessa storia.
I mille giorni di Nina Weksler nel campo di concentramento di Ferramonti, grazie alla regia di Dora Ricca e all’interpretazione di Lara Chiellino, sono stati raccontati in una messa in scena dal titolo Nina. Guten Morgen Ferramonti.
La performance era già stata presentata in anteprima nazionale al Salone Internazionale del libro di Torino. Lara Chiellino, nel ruolo della Weksler, ha riportato Nina nel luogo della sua detenzione, tra le strade e le case che sicuramente conservano memoria del passato, degli odori e delle trepidazioni.
Lo spettacolo nasce per volontà dell’editore Demetrio Guzzardi che nel 1992 ha pubblicato il libro Con la gente di Ferramonti. Mille giorni di una giovane ebrea in un campo di concentramento, libro che nel 2020 è stato pubblicato in una seconda edizione sempre per la casa editrice Progetto 2000.
Ferramonti di certo non era Dachau, Buchenwald, Bergen Belsen e tanto meno Auschwitz, niente a che vedere con quanto succedeva nei campi di sterminio e di lavori forzati dell’ Europa centro-orientale.
Dora Ricca è riuscita ad adattare il testo, con tutta la sua moltitudine di dettagli e la complessità di emozioni, nello spazio e nel tempo della messa in scena. Il racconto del popolo ebraico parla anche di un pezzo di Calabria, di una zona malarica divenuta, per la sua condizione di isolamento geografico, una salvifica Arca di Noè, grazie alla quale, migliaia di persone hanno trovato la possibilità di sopravvivere al genocidio messo in atto dalla furia nazifascista. Il peso della storia è raccontato come un esercizio di equilibrio e di resistenza al dolore, la semplicità della gente di Calabria diventa elemento di somiglianza, quindi sentimento di empatia, da condividere con quel popolo perseguitato da secoli.
Ricca ha portato in scena, grazie all’interpretazione di Lara Chiellino, una donna libera che, nonostante la sua condizione di internata, non ha consentito a nessuno di annientarla sul piano umano, così come tanti piccoli paesi calabresi resistono all’appiattimento dell’omologazione culturale di una società proiettata verso processi di virtualizzazione.
La superluna di fine estate ha illuminato Tarsia e tutte le storie di resistenza di una terra in cui vivere non è sempre semplice.
La resistenza è una storia che può essere rintracciata anche nelle azioni delle persone capaci di stare dalla giusta parte, nonostante la loro divisa. La resistenza è quella del commissario di Pubblica Sicurezza Paolo Salvatore e del Maresciallo Gaetano Marrari, oggi Giusti fra le Nazioni. La resistenza è quella di chi conserva le proprie radici e la memoria collettiva, cercando di trasformare tutto questo in un patrimonio culturale da promuovere e restituire alla società.
La resistenza è quella dei piccoli paesi della Calabria, dove chi ci vive aspetta impaziente quelli che tornano solo per la bella stagione, pronti per raccontare che la storia è passata anche da questa terra marginale e periferica.
di Maria Concetta Loria