Lo sforzo disperato che compie l’uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è teatro.
(Eduardo De Filippo)
«Questa è una commedia strana» – dice l’autore – «il lettore giudichi con la propria testa»
«…si forma una sua idea del lavoro, e decide da solo se la commedia è valida o no, teatrale o non teatrale (alcuni l’hanno ritenuta una “noiosa conferenza sul teatro”), pericolosa (al punto da meritare una censura televisiva) o no. Voglio farvi solo una raccomandazione: tenete presente che questa commedia non l’ho scritta solamente per la gente di teatro – come alcuni affermano – ma per tutti noi, giacché i problemi di cui tratta riguardano la nostra vita e quella dei nostri figli».
I problemi di cui il teatro tratta riguardano i nostri figli e le generazioni future.
Perlomeno il testo messo in scena ancora una volta, e questa in particolare con la regia di Fausto Russo Alesi, fa ritirar fuori questo invito a teatro fatto direttamente da Eduardo De Filippo alla gente comune, perché il teatro parla di tutti noi e salva il nostro futuro.
Ho potuto constatare che in tanti ne abbiamo ripreso la suggestione. Non a caso.
De Filippo la usa a mo’ di prefazione del suo testo pubblicato da Einaudi, ma perché usa una dichiarazione del genere? E perché poi un artista come Fausto Russo Alesi ne riprende il significato per farne una regia così tanto ardua e perigliosa (per questi tempi, nuovamente)? Ne difende la portata con sì tanto ardore e dedizione, forse perché il teatro sta morendo? Perché non ci sono più autori? Forse perché nessuno va più a teatro? (Soprattutto per questo?). Gli attori marciscono nei sottoscala. Fausto Russo Alesi ne sposa la causa appieno.
Gli autori ci sono, sembra voglia ribadire, ma non scrivono. E perché non scrivono? Forse perché vengono censurati? No, si autocensurano, si dice nel bel mezzo della rappresentazione.
E sono pienamente d’accordo. Gli autori si autocensurano in tempi che sono fin troppo bui. E al massimo del loro avvilimento, per non poter scrivere quello che veramente vorrebbero scrivere, finisce che non scrivono neanche più.
E questo dire dell’autocensura, amplificato sul palcoscenico, è risuonato in me proprio come un concetto assai devastante. O è stata una mia proiezione psichica e intellettuale?
Eppure a questo serve il teatro, a immedesimarsi.
È così triste il periodo storico in cui vivo da non sentire la necessità, l’urgenza, di voler scrivere più di niente? In questo tempo della bulimia letteraria e mediatica, in sovrapposizione, dove ognuno solo con un post vorrebbe pur sconvolgere il mondo, davvero ci sono degli autori che paradossalmente rinunciano proprio a scrivere, sentendosi saturati, esacerbati? Tanto non serve? Una sorta di depressione intellettuale post romantica e anche post positivistica, che dopo aver perso l’ideale, ha perso anche l’inutilità dell’ideale, e che ora si rispecchia in una inutilità assoluta iperrealistica rispetto al significato esistenziale stesso della scrittura. Oltre quindi ogni nichilismo novecentesco? La letteratura è finita? La realtà ha avuto il sopravvento su ogni sua possibile interpretazione.
Nessuno scrittore lotta più, neanche solo per scrivere? O invece, quanti scrittori si lasciano andare al loro piangersi addosso e alla sterile reprimenda verso tutti quegli altri che scriverebbero “male” e però vengono premiati?
Tutto ciò quanto è vero, se consideriamo solamente tutti i libri pubblicati qui da noi in Italia in un anno (quanti ne vengono letti)? O forse la maggior parte degli scrittori che pubblicano opere oggi, che ci riescono senza comprarsi i loro stessi libri di tasca loro, sono banalmente degli scrittori conformi e compiacenti al sistema, inseguitori del consenso, o semplicemente corrispondenti ai due gruppi di potere ideologici più forti del nostro paese? C’è da capirlo!
Poi però capita che quello scrittore che non scrive vada a teatro, su invito di Eduardo, e di Fausto Russo Alesi, e si mette a piangere dentro il suo sé per il dolore che non ha saputo esprimere con la scrittura, o che ha buttato via senza farsene niente, o che ha nascosto per quella censura che si è autoimposto soltanto credendo di soffrire un po’ di meno e non trovare giudizio, per non volere far più soffrire per immedesimazione gli altri. Perché è considerato un peccato assai grave in un tempo in cui gli altri non ne vogliono proprio sapere del dolore, e il sistema è proprio il dolore che va censurando per quel suo linguaggio universale e rivoluzionario comune individuale, ostinarsi a provare e a far provare dolore.
Certo il testo parla principalmente degli attori e dei registi, umiliati, se possibile, ancora più degli scrittori, soggetti considerati abietti, che vivono il degrado delle emozioni per aspirazione e con talento, ma questo per corrompere lo spettatore, convincerlo che è colpa dei poteri forti se soffre. Sua perché non si adegua.
Insomma il teatro in questo testo promuove liberamente una controcultura del dolore, insostenibile e irrimediabilmente pericolosa per una società vincente e arricchita. Poi “vincente”…di pochi.
Siamo nel dopoguerra, nei “giorni dispari”, che per i napoletani sono i giorni nefasti, il capocomico Oreste Campese (interpretato magnificamente da Fausto Russo Alesi) perde il capannone andato bruciato dove metteva in scena, insieme alla sua famiglia, testi scritti dagli stessi per raccontare storie vere, realmente accadute. Ne vogliono mettere in scena 14 tutte insieme, ma ora che non hanno più il capannone, devono chiedere aiuto al Prefetto, ma non per ricevere soldi, soldi non ne vogliono, vorrebbero che il Prefetto andasse tra gli spettatori, perché in questo modo venderebbero tantissimi biglietti.
Il Prefetto (perfetto Alex Cendron) disposto a dare loro dei soldi (un’elemosina in definitiva, la causa non è così importante al suo prestigio) si rifiuta invece di andare a teatro, perché in questo modo comprometterebbe la sua posizione politica…
Il Capocomico, mortificato per il pensiero espresso dal Prefetto, dall’autorità, riguardo al valore culturale del teatro, se ne va deluso, avvertendo però il Prefetto stesso che le storie che i suoi concittadini andranno a raccontargli dopo aver preso direttamente appuntamento con lui, come anche ha fatto il Capocomico, per chiedere aiuto, saranno storie “teatrali” raccontate dai suoi attori, certo nei panni dei protagonisti veri di quelle storie.
Sarà la finzione teatrale, il verosimile, o la realtà che confonderà il Prefetto? Certo fino al punto che, nel dubbio si tratti di un attore, il Prefetto lascerà morire un farmacista suicida (prezioso Demian Troiano Hackman), per non avergli concesso la licenza. Era solo un attore! E noi assisteremo alla sua morte, e non si saprà in alcun modo se quello è morto per davvero o se è semplicemente e magistralmente stata la prova emblematica di un attore…
Quello che lo spettatore apprenderà però sarà che non importa se quell’uomo è morto per davvero, perché quel morto prima o poi potrebbe realmente esserci, e potrebbe essere anche lui stesso, lo spettatore, esserci già stato da qualche parte del paese. E lo spettatore proverà comunque dolore. Solo perché quel fatto possa accadere o possa essere già accaduto.
La regia usa il buio come elemento funzionale alla percezione, i personaggi emergono dal buio. Li dobbiamo sentire come nel nostro inconscio. Il narratore che introduce le scene invece lo fa in un modo fastidioso, scocciato, con una voce evidentemente impostata, annoiato per quello che deve fare e che sta accadendo. Un contrasto percettivo tra voce e buio. Tra racconto e nascondimento, tra voce altisonante e negazione e rimozione.
Altro elemento fortemente simbolico: una porta da Ministero, che si apre e si chiude con al di là un’anticamera. E niente altro, solo una porta che divide il fondo dall’apparenza. A quella porta però viene appeso un piatto che per i movimenti di luce laterale alcune volte ci sembra la luna.
Il Capocomico, stanco e affaticato, ha un atteggiamento inizialmente contemporaneo quasi di rinuncia, ma poi non ci riesce e urla contro, da piegato e incurvato si inalbera davanti a noi difendendo le ragioni del teatro in maniera estrema e rivoluzionaria. Da solo contro il sistema. Viene scacciato come un pusillanime millantatore di emozioni, ma in questo modo darà voce alle altre quattro storie che prenderanno coraggio dopo di lui, per lui.
La maestra che racconta del bambino morto dimenticato da lei in castigo al freddo, ma che, siccome era un bambino nato fuori dal matrimonio, si vorrebbe sacrificare il suo ricordo alla comunità non facendolo esistere più da quel momento, se non fosse per quell’urlo della maestra insistente e intenso che dice che proprio è morto per causa sua (Irma Villa, attrice in scena superba); Il prete del paese (divertentissimo Gennaro De Sia) a cui viene confessato un tradimento e la nascita di un bambino imminente, sempre fuori dal matrimonio, frutto di quel tradimento, che va a chiedere consiglio e assistenza a quel Prefetto perché non si distrugga quella famiglia, che quella scellerata ha messo in discussione. Il bambino verrà abbandonato in sacrestia e chi dovrà occuparsene, lei? Il medico che, se salva una vita, è merito del Signore, e quante ne ha salvate, se invece capita che qualcuno muoia…è tutta colpa sua, incapace, che ne sconti le pene in terra, il giudizio e l’impotenza (molto bravo nel suo ruolo Filippo Luna). Al Prefetto chiede disperato una targa, un qualsiasi riconoscimento pubblico, che non dico lo metta al pari del Signore, ma…. La quarta storia è del farmacista che ha sempre fatto il farmacista, ma non ha la licenza. Insomma, personaggi pirandelliani. Ma stavolta l’urlo è degli attori che vogliono raccontarle queste storie, mentre i politici non vogliono che né gli scrittori né gli attori le raccontino. Qualche solduccio alle compagnie e ai teatri come una beneficienza, ma solo per tenere al guinzaglio, per decidere i temi da trattare e come trattarli. Proprio così chiudono i teatri, e anche quelli che resistono dopo i “commissariamenti”, spesso diventano carne da spartire.
Eppure, se solo sapessimo veramente che le cose brutte della nostra vita le racconta il teatro, e che ci difende nel raccontarle! Il teatro è onesto intellettualmente sennò muore, parla alla comunità per far comprendere, parla “a noi tutti” come dice Eduardo per i nostri figli. E solo se si prova il dolore degli altri si comprende veramente il proprio. Il teatro permette questo: ri-presentare (rappresentare) a se stessi il dolore per la vita, com’è.
Questo spettacolo è per me un capolavoro. Si riesce a cogliere appieno l’esistenza stessa del teatro, la sua ragion d’essere, il dolore degli attori nel mettere in scena loro stessi e i loro personaggi.
“L’arte della commedia” di Eduardo De Filippo/adattamento e regia di Fausto Russo Alesi/con (in ordine di locandina): Fausto Russo Alesi, David Meden, Sem Bonventre, Alex Cendron, Paolo Zuccari, Filippo Luna, Gennaro De Sia, Imma Villa, Demian Troiano Hackman, Davide Falbo/scene Marco Rossi/costumi Gianluca Sbicca/musiche Giovanni Vitaletti/luci Max Mugnai/consulenza per i movimenti di scena Alessio Maria Romano/assistente alla regia Davide Gasparro/assistente ai costumi Rossana Gea Cavallo/foto di scena Anna Camerlingo/produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Fondazione Teatro della Toscana – Teatro Nazionale, Teatro di Roma-Teatro Nazionale, Elledieffe/si ringrazia per la collaborazione il Piccolo Teatro di Milano -Teatro d’Europa
visto al Teatro Argentina di Roma
di Chiara Merlo