Femminaccie impudentissime. Una ricerca di Cinzia Dal Maso

Questa è ciò che considero vera generosità. Dai tutta te stessa e tuttavia ti senti sempre come se non ti fosse costato nulla

(Simone de Beauvoir)

Già soltanto il titolo. Femminaccie impudentissime. Chi può non sentirsi attratto da un simile titolo su una copertina che riproduce la caricatura di una femmina agghindata fine ottocento che impugna una pistola? Bel contrappasso nei confronti di colui che senza ombra di ironia apostrofò così le infermiere volontarie che prestavano soccorso ai soldati feriti durante gli eroici mesi della Repubblica Romana.

Colui è Giuseppe Boero, gesuita, bontà sua, e il libro in questione è il risultato di una meticolosa e certosina ricerca condotta da Cinzia Dal Maso, giornalista e scrittrice, membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Internazionale di Studi Giuseppe Garibaldi.

Un compendio ricchissimo di testimonianze riportate letteralmente, che potremmo indicativamente suddividere in attestati di gratitudine e ammirazione, da una parte, e inequivocabili prove di umana idiozia, dall’altra. Idiozia, più ancora che oscurantismo. Di quelle cose che se te le raccontano pensi che siano il frutto della fantasia di un antesignano di Altan, di un autore di satira che prende spunto dalla vita reale e poi te la serve infiocchettata a piacere. Dopo averci affondato la lama e aggiunto il carico da novanta. No no, nessuna invenzione, nessuna manomissione. Qui si citano proprio le fonti.

Sentite questa:

“Sciami di donne capitanati da due donne per forme bellissime, note in tutta Italia, benché non più giovinette, ancor seducenti e acconce a destare passioni vulcaniche e desideri ardentissimi. Vaghe e scelte giovinette nubili, maritate recenti, maritate anche un poco stagionate, ma che aiutate dal sussidio della biacca e del minio, e delle vesti ove attillate, ove scollacciate, ove fluenti, ove corte, rivelavano il pericoloso, celavano i defetti, moltiplicavano le tentazioni, ne pendevano dai cenni, ne bevevano gli ammaestramenti. Le tentazioni fioccavano al solo contemplarle … Così leggiadre, piene d’allettamenti, gareggiando in cortesie, con sguardi studiati, con studiate parole, circondavano il letto del ferito …”.

foto dell'autrice di Teresa Mancini

Insomma, queste donne dissolute, secondo il giornale ufficiale della Curia, non desiderando altro che offrire le loro grazie a eserciti di baldi e combattivi giovanotti, peccato soltanto che feriti, moribondi, immaginiamo anche maleodoranti, si sarebbero contese il capezzale a suon di “sguardi studiati e studiate parole”, e, naturalmente, ricorrendo  al  “sussidio della biacca e del minio”, ché per essere presentabili, tocca darsi una sistemata.

Ammetto che mi sono divertita assai a catalogare epiteti, eufemismi, coloriture lessicali che viene voglia di scriverci un copione, tipo ‘crema delle streghe’, ‘proseliti di voluttà’, ‘s’avvolgevano snellette’, ‘zuccheroso commiato di innocenti angiolette’, fino al papale, in tutti i sensi, ‘sfacciate meretrici’ che arriva dritto dritto da papa Pio IX, ché i  pontefici è bene che parlino chiaro.

Così chiaro che è bene altrettanto rispondere a tono. Ci pensò Cristina Trivulzio di Belgioioso, la fondatrice del Comitato di Soccorso, nobildonna milanese, giornalista, scrittrice e  anima del Risorgimento, una baricadera ante litteram la quale, come scrive Giuseppe Garibaldi, pronipote di tanto eroe, nella presentazione del volume, “denunciò gli abusi e le criticità del sistema, trascorse intere notti al capezzale degli infermi, inoltrò richieste tormentando i Triumviri e soprattutto il povero Mazzini”.

Ma sistemò anche il Pontefice con una lapidaria e definitiva risposta, nonché un rapido ripasso di catechismo:

“Tra la moltitudine di donne che si dedicarono alla cura dei feriti, non ve n’era neppure una di costumi irreprensibili. Vostra Santità si degnerà sicuramente di considerare che non disponevo della Polizia Sacerdotale per indagare nei segreti delle loro famiglie o meglio ancora dei loro cuori. Mi accadde di essere informata che l’una o l’altra avesse esercitato in precedenza una professione disonesta: forse avrei potuto espellerle, non avessi io adorato il precetto di quel Dio che, in sembianza umana, non disdegnò che una donna di perversi costumi gli ungesse i piedi”.

Questo, insomma, il carattere della donna che chiamò a raccolta le donne romane senza fare alcuna distinzione di professione o classe sociale.

La risposta fu ingente e immediata e non soltanto da Roma e permise di formare un gruppo di ben trecento volontarie selezionate secondo criteri durissimi che alla morale cosiddetta anteponevano l’interesse dei feriti. Amici e nemici, secondo il sacrosanto principio dell’imparzialità del soccorso.

Generando anche qui, e dagli stessi francesi, gratitudine o disapprovazione. Dipende sempre dai lumi della ragione.

Eppure l’operato delle volontarie continuò senza tregua distribuito nei diversi presidi ospedalieri e religiosi, concessi non senza resistenze da parte delle suore.

L’organizzazione era impeccabile e andava dall’elenco dei locali delle ambulanze (erano detti ambulanze anche i locali di soccorso stanziali) con i nomi delle rispettive direttrici, al reperimento di biancheria per realizzare le bende, alla raccolta porta a porta (autorizzata dal Governo) per procurarsi aiuti per i feriti, fino al soccorso spirituale rivendicato attraverso una mirata richiesta all’autorità religiosa competente.

La Repubblica Romana non ha avuto vita lunga ma viene da chiedersi cosa ne sarebbe stato di questi giovani soldati feriti, italiani o francesi, senza questa capillare rete di donne che, in cambio di nulla e incuranti del pericolo, rischiavano la pelle sotto la minaccia delle bombe. Che cadevano anche sui luoghi di cura, nonostante la bandiera nera issata sugli ospedali, il segno convenuto che chiedeva incolumità, non sempre rispettato.

Un merito di questo libro, uno tra i tanti, è proprio l’avere fatto un po’ di giustizia, dirottando l’attenzione su coloro che avevano come priorità l’assistenza e la cura, e poco tempo per pensare a combattere.

Donne di cui consociamo i nomi e la storia, dame dell’aristocrazia romana, mogli e compagne di patrioti, alle quali l’autrice dedica nella seconda parte del libro un singolare profilo biografico, anche questo corredato di testimonianze certificate e di immagini di archivio, ma anche donne, la maggioranza, di cui non si conosce nemmeno il nome. Donne del popolo, madri di famiglia, giovani ragazze e anche prostitute, vivaddio, per la consolazione degli infermi e con buona pace del pontefice.

Ecco, si può dire che Femminaccie impudentissime sia anche un monumento all’infermiera ignota, che, raccontando un breve spaccato di storia romana, ha voluto rappresentare la generosità e l’abnegazione di tutte.

Puntando il dito sui detrattori stolti, ma anche rendendoci partecipi di onorevoli barlumi di ragione e buon senso.

Uno tra tutti arriva con la testimonianza di Filippo Zamboni, capitano del Battaglione Universitario romano, che le chiamava ‘Samaritane’:

“Esse, che venivano da famiglie agiatissime, vinsero ogni ribrezzo che il luogo e la calda stagione doveva produrre, e scelsero a loro stanza perenne il letto di qualche ammalato. Conoscevano il linguaggio del cuore. Gli parlavano di patria e di libertà. Qualunque ferito, qualunque fosse la ferita, fosse anche lasciato morto sul campo, esse non disperavano mai. Sapevano che un raggio di vita era cosa ben più sublime di ogni fatica, perciò con una costanza ammirabile, vegliavano per trattenere ancora questa scintilla”.

di Alessandra Bernocco

Belgiojoso in una ritratto di Francesco Hayez, foto di Cristina Trivulzio