Sei personaggi per un Otello

Che Dio ci aiuti a non imparare il male dal male ma solo buoni insegnamenti

(Desdemona, Otello)

A vedere come annaspa il teatro fuori dai circuiti istituzionali, regolati da scambi, insediamenti rapinosi nel cuor della notte e accondiscendente silenzio da parte di chi spera di rimediarci qualcosa, Shakespeare, o lo si consegna ai teatri nazionali, rinunciando a priori a ogni possibile sfida, oppure un escamotage lo si deve trovare, e allora la sfida diventa una deliziosa incombenza col suo bel carico di rischi.

Tra riduzioni, adattamenti, innesti, ibridazioni, cast ridimensionati se non ridotti all’ossatura, scenografie inesistenti e scene madri reinventate in spazi adatti al teatro da camera, il campionario è senza pari.

Il Bardo ne ha viste di tutti i colori e di tutti i colori ne ha sopportate, nascosto dietro riscritture che se la cavano con un liberamente tratto da o liberamente ispirato a. Liberamente, molto liberamente, licenziosamente.

Perché Shakespeare non è soltanto il gigante di cui fregiarsi almeno una volta nella carriera ma è soprattutto un banco di prova a cui non ci si vuole sottrarre.

Ma ben venga chi si industria a raccogliere le sfide, cercando di fare di necessità virtù.

Questa volta la sfida l’ha raccolta un giovane regista di cui ancora non avevo visto nulla, Luigi Siracusa, sostenuto da un team produttivo tutto al femminile che fa capo a Goldenart di Federica Vincenti. E la scelta è caduta su Otello, la tragedia della gelosia per antonomasia, con una storia di rappresentazioni che è di
per sé un monumento. Quindici personaggi, senza contare i gregari, cinque atti, spostamenti, spedizioni, strade, piazze, stanze di castelli, talami e alcove, porti e spiagge, notte e giorno, marinai, musici, araldi e ufficiali.

Come si fa con sei interpreti in uno spazio occhio e croce sei per otto, privo di quinte, dislivelli, proscenio, fondali arretrabili? Tale è il Cometa Off, il teatro romano nel quartiere Testaccio dove questo nuovo allestimento di Otello ha debuttato martedì 1 ottobre e sarà in scena fino a domenica 13.

Come si fa? Si fa. Magari ispirati da un’immagine forte intorno alla quale fare ruotare l’intero spettacolo.

L’immagine è quella di un’installazione dell’artista britannica Tracey Emin, nota per le sue opere autobiografiche, espressione di una biografia tribolata di donna abusata già durante l’infanzia.  My bed il titolo, ovvero il suo letto disfatto che racconta la fine di una relazione sentimentale.

Cos’ha in comune quest’opera con la storia di Otello e Desdemona? “Il racconto del legame sentimentale tra due persone – scrive il regista nelle note – e il processo che ne porta alla fine”. Il letto, il luogo che nell’opera di Emin è ricettacolo di oggetti divenuti inservibili, scarti di una vita che ha cessato di essere, qui è il luogo dove si compie l’amore e la morte, e sta lì a testimoniare di un tempo intermedio scandito da eventi, incontri, connessioni di senso, interferenze e manomissioni. Il luogo dove si scrive la storia di due ingenui innamorati in balia della volontà distruttiva di quell’essere abietto che è Jago, il calunniatore invidioso per rappresaglia e per indole.

Superbamente interpretato da Francesco Sferrazza Papa, Jago si veste del più caustico linguaggio  shakespeariano, lo incarna nel corpo asciutto, affilato, nervoso, nei gesti striscianti, felini, nella reticenza ipocrita e provocatoria, negli sguardi insinuanti che controllano, spiano, non si concedono tregua.

Nulla deve sfuggire alla sua giurisdizione e questo si sa. Si conoscono anche gli a parte di cui Shakespeare lo dota e che nei grandi teatri arrivano al pubblico a debita distanza, alla meglio dal proscenio, meno incombenti e meno minacciosi, più epici, forse.

Qui invece siamo a pochi centimetri dallo spazio di azione e ne vediamo chiaramente il volto, il ghigno, gli occhi diabolici. Sferrazza Papa sarebbe davvero un gran Mefistofele, chissà.

Ed è sul personaggio di Jago, soprattutto, che si regge questa fitta rete di relazioni a sei, relazioni che accadono lì, a vista, ora in atto ora demandate a un prima e a un altrove, grazie a convenzioni registiche chiare e plausibili. Gli attori non escono mai completamente di scena, soltanto si appartano, si siedono a
terra, voltano le spalle alle pareti. Interlocutori sospesi pur nel loro esser lì, presentimento o memoria di quel che succede, contraltari in controscena che agiscono e reagiscono come riflessi condizionati attraverso una precisa gestualità di rinforzo.

La temperatura tragica è ben sostenuta da tutti gli interpreti, una compagnia coesa di ex allievi della Silvio D’Amico, tra i venticinque e la trentina inoltrata, che probabilmente non è la prima volta che divide la scena.

L’Otello di Gianluigi Rodrigues e la Desdemona di Zoe Zolferino si annunciano con una scena mimata, che sintetizza la seduzione fatta di attrazione e ripensamenti tra due anime fragili unite da desideri e pulsioni che non si accordano con la convenienza. Per noi restano due archetipi tragici che vorremmo revocare una
volta per tutte e che invece non sono mai completamente esauriti e i due interpreti li smuovono con una bella verità introspettiva. Una verità ravvicinata, scritta nei corpi, che la prossimità con il palco rende più intima e meno solenne.

Luca Carbone, grazie a un buon controllo del corpo, è generosamente in parte nel restituire l’imbarazzo e il candore di Roderigo, servitore di Jago, obbediente al di là di ogni sospetto, fin quasi alla fine. E così Laurence Mazzoni che convince con il suo Cassio intelligente, in buona fede: e non sempre l’una garantisce l’altra.

L’Emilia di Eleonora Pace, vera dea ex machina della tragedia, si mantiene bene in equilibrio tra devozione alla padrona e obbedienza al marito, fino a che questo equilibrio è possibile. Poi gli eventi precipitano, la temperatura sale e la verità senza veli viene gridata forte a chi la può ancora sentire. Verità dei cuori, di cervelli piccoli, di sentimenti sciocchi.

Questo per dire che nonostante i tagli e i personaggi eliminati, l’adattamento mantiene intatti i momenti nodali e i picchi tragici sono salvaguardati. Insomma la tragedia non si raffredda.

I costumi, stilizzati e moderni, eleganti, sono di Francesco Esposito, probabilmente anch’essi pensati a partire dall’installazione di Emin, in contrasto evidente con il degrado che da essa trasuda.

Le luci plastiche di Pasquale Mari sono sempre un valore aggiunto, importantissime per circoscrivere spazi, suggerire traiettorie, evocare e alludere laddove non ci sono riferimenti concreti. Sulle musiche firmate Oragravity (la stessa firma del film L’ombra di Caravaggio diretto da Michele Placido) vorrei dire soltanto una cosa: quella specie di canzoncina che mi pare facesse papapapa, prima tutti insieme poi lasciata per troppi minuti alla sola Emilia, non l’ho capita e mi ha infastidita.

Pace, resta un lavoro importante e un bello spettacolo a cui auguriamo che giri e che venga visto da chi di dovere.
Ora la domanda è se e quanto la sintesi renda pienamente giustizia all’autore e la risposta non è certo che è meglio così, che anche una grande tragedia shakespeariana è meglio rappresentarla in un teatro da camera, in un atto unico, con sei interpreti. No, meglio sarebbe ripensare da capo il delirante sistema dei finanziamenti pubblici e capire dove e in che modo ci si può permettere di investire. Magari andando a vedere cosa succede nei teatri più piccoli, quelli che a ogni fine stagione non sanno mai a che santo votarsi. Andando a vedere chi è bravo e chi no, chi merita e vale e chi invece se la racconta. Non è nemmeno tanto difficile. In ultimo, visto che di Shakespeare abbiamo parlato, che se ne dice del Globe, quel gran teatro ridotto a ground zero?

Otello di William Shakespeare

Adattamento e regia: Luigi Siracusa
con Francesco Sferrazza Papa
Gianluigi Rodrigues
Zoe Zolferino
Laurence Mazzoni
Eleonora Pace
Luca Carbone
Scena Luigi Siracusa, Francesco Esposito
Costumi Francesco Esposito
Luci Pasquale Mari
Musiche Oragravity
Progetto grafico Giulia Pagano
Prodotto da Goldenart Production in coproduzione con
Accademia Nazionale d’arte Drammatica Silvio D’Amico

Foto di scena Manuela Giusto

di Alessandra Bernocco