Mein Kampf di e con Stefano Massini, da Adolf Hitler

foto di scena di Masiar Pasquali foto di scena di Masiar Pasquali

Nel periodo fra la prima e la seconda guerra mondiale abbiamo assistito a un cambiamento radicale delle forme del pensiero politico. Forse il tratto più importante e più allarmante di questo sviluppo del pensiero politico moderno è l’apparizione di un nuovo potere: il potere del pensiero mitico.

(Ernst Cassirer, Il mito dello Stato)

Stefano Massini propone al Teatro Strehler di Milano uno spettacolo tratto dai discorsi e dalle conversazioni di Adolf Hitler, ma soprattutto dal Mein Kampf, opera, scritta in carcere nel 1924 dopo il fallito “putsch della birreria”, in cui il futuro Fuhrer e Cancelliere del Reich narra, nella prima parte, la sua autobiografia, mentre, nella seconda parte, espone il programma del movimento nazionalsocialista.

Lo spettacolo è recitato dallo stesso Massini che, accompagnato dagli apporti sonori scelti da Andrea Baggio, si muove su una struttura che evoca un foglio di carta sospeso, a ricordare che anche il Mein Kampf è fatto di parole, che però hanno avuto effetti nefasti per milioni di persone.

Infatti ciò che interessa a Massini in questo spettacolo è indagare il potere delle parole e valutare se quelle parole dette in quel contesto, di una Germania sconfitta, gravata da un debito enorme e da una inflazione devastante, possano avere ancora oggi effetto.

Ne viene fuori il quadro di un giovane Hitler oppresso dalla vita di provincia, arrabbiato ma determinato, che parla con un tono enfatico, ma a tratti o come ispirato da una forza superiore, o quasi propenso ad una confessione più intima.

E il pubblico sembra reagire con partecipazione e intensamente a quanto detto sul palco, quasi a dare ragione a Massini quando afferma in una intervista che “quelle parole non sono morte, parlano ancora” . Quindi poiché il Mein Kampf si articola intorno ad alcuni nuclei ideologici ripetuti in modo ossessivo, come l’idea della razza, della violenza e della dittatura, oltre che dello spazio vitale germanico ad Est, il rischio che qualcuno possa trovare attraente tutto ciò in un contesto di incertezza economica, risentimento verso l’establishment, soprattutto politico, e paura per l’invasione degli immigrati è concreto.

Ma allora bisognerebbe proibire quella che dagli storici è ritenuta la Bibbia del nazismo? Massini risponde con le parole di Brecht e Primo Levi, che “solo la conoscenza può inibire il ripetersi del male”. E presenta il suo spettacolo come un “vaccino”, quando “un virus depotenziato, viene inoculato dentro un individuo, scatenandogli una reazione, affinché il suo sistema immunitario si ricordi e reagisca quando poi arriverà il virus vero”.

foto di scena di Masiar Pasquali

Così lo spettacolo di Massini dovrebbe iniettare il virus del nazismo e invitare il pubblico a reagire attivando il senso critico.

Solo così, afferma l’autore-attore, “possiamo renderci consapevoli, prepararci, a quando quelle frasi non le dirà un uomo di teatro, ma si troveranno dentro un discorso politico o verranno da qualcuno che ha chiesto il tuo voto”.

Qualcuno potrebbe riconoscere in queste parole la pretesa e l’illusione faustiana che prende molti intellettuali i quali credono di poter signoreggiare il demone al quale danno vita.

Il filologo e critico letterario Carlo Ossola, interpellato a proposito della riedizione del Mein Kampf, affermò che intellettuali di questo tipo si comportano come coloro che diffondono una epidemia per vedere se il corpo sociale ha sufficienti anticorpi, mentre è sotto gli occhi di tutti il precario stato di maturità della coscienza nelle moderne società democratiche.

Con questo non si vuole invitare a mantenere il divieto di pubblicazione del testo hitleriano, divieto oramai anacronistico. Già nel 2016, a settant’anni dalla morte di Hitler, alla scadenza dei diritti d’autore, si arrivò a ritenere inutile qualsiasi censura del Mein Kampf.

Le ragioni erano molto semplici: il libro non aveva di fatto mai smesso di circolare in pubblicazioni clandestine o nelle copie cosiddette d’antiquariato; nei paesi arabi addirittura era diventato un best seller come campione dell’antiimperialismo; inoltre, non aveva senso proibire il Mein Kampf quando avevano libera circolazione decine di classici dell’odio razziale e dell’antisemitismo, anche in autori non esplicitamente neonazisti o neofascisti; in più l’avvento di internet aveva e ha reso vana ogni pretesa di controllo.

Alla fine, coloro che erano danneggiati dal divieto erano proprio gli storici, che non avevano l’opportunità di studiare un testo attendibile e comunque una fonte importante per comprendere la storia tedesca e internazionale del secolo scorso.

Per questo si operò allora per togliere i divieti e approntare un’edizione critica. Quella tedesca è uscita all’inizio del 2016 ed è un testo di circa duemila pagine con note minuziose.

Il dibattito allora si è spostato non sul se ma sul come leggere il Mein Kampf per distruggerne il mito e affievolirne gli effetti politici.

foto di scena di Masiar Pasquali

Quella di Massini è una proposta: spingere sulla dimensione autobiografica del testo e presentarlo come un perverso romanzo di formazione.

Eppure Hitler è un bugiardo, mente sulla sua povertà come sull’origine del suo antisemitismo e su altri aspetti della sua vita viennese.

Ciò che sembra sfuggire alla lettura di Massini è quanto il personaggio di Hitler sia costruito. Nel Mein Kampf, il futuro Fuhrer della Germania sta edificando il proprio mito, quello del puro eroe, analogo al Parsifal di Wagner con il quale si voleva immedesimare, salvatore della patria tedesca. Con ciò collegandosi consapevolmente al culto degli eroi proprio dell’epoca, solo rafforzato dalla recente guerra mondiale, ma un portato della cultura fin de siècle (Carlyle, Gobineau e Hegel).

Ero-archia che Hitler unisce al “popolo come razza” e a una visione Imperiale dello Stato. Inoltre, con la sua affabulazione il futuro Fuhrer  vuole riattivare un altro Mito, quella della lotta del bene contro il male, con l’ebreo-bolscevico, descritto nella sua diversità, a questo è funzionale l’episodio “dell’uomo del caffetano”, ovviamente nella parte del cattivo, per spingere il popolo tedesco a risollevarsi e a prepararsi ad un nuovo conflitto che giudicava inevitabile, per lavare l’onta di Versailles.

Quindi, al di là della paranoia e delle ossessioni, e delle mancanze anche stilistiche e degli errori ortografici, Hitler e i suoi collaboratori, che non erano certo dei letterati sopraffini, offrirono un esempio efficace di retorica politica e di quella che il compianto studioso Furio Jesi chiamava tecnicizzazione del mito, pseudo epifanie del mito, provocate deliberatamente in vista di determinati interessi, in questo caso di dominio. Forse per non cadere nelle trappole hitleriane bisognerebbe non riproporre mimeticamente certe strategie, ma svelarne i  meccanismi con un’opera di decostruzione.

di Bruno Milone

Mein Kampf
PRIMA ASSOLUTA
di e con Stefano Massini 
da Adolf Hitler 
scene Paolo Di Benedetto 
luci Manuel Frenda
costumi Micol Joanka Medda 
ambienti sonori Andrea Baggio
produzione Teatro Stabile di Bolzano, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa 
in collaborazione con Fondazione Teatro della Toscana