… ma insomma, gli dicevo, che pressante bisogno avete di rimare? Chi diavolo vi spinge a farvi pubblicare? Per aggiungere un’opera brutta, squalificata, all’enorme mercato della carta stampata? Resistete, credetemi, a queste tentazioni, non rivelate al pubblico tali divagazioni; anche se ve lo chiedono, sperando nel successo, non perdete il rispetto che dovete a voi stesso, se qualcuno vi pubblica, magari a pagamento, restate un dilettante, e privo di talento.
(Il misantropo, Molière, traduzione Valerio Magrelli)Un Misantropo che più Molière non si può, quello allestito dal Teatro Franco Parenti di Milano, al secondo anno di repliche. Mi viene da dire finalmente un classico fatto come un classico. Uno di quei lavori che non ti aspetteresti e che quindi ti stupiscono. Lavorato di cesello, dalla traduzione alle luci al trucco e parrucco ai minimi accessori, quelli che magari nemmeno si distinguono già dalla quarta fila.
Forte di crediti che tutti insieme così, raramente si vedono.
Scene di Margherita Palli, neutre con citazioni d’epoca, funzionali a una dinamica di presenza assenza, ti vedo non ti vedo, ti osservo ti spio origlio controllo; costumi di Giovanna Buzzi, filologici, bellissimi; traduzione in versi settenari incrociati di Valerio Magrelli, verificata sul campo e con “attenzione spasmodica” dalla regista, Andrée Ruth Shammah, insieme a Luca Micheletti, nel ruolo del titolo lo scorso anno e ora sostituito da Fausto Cabra, che del Franco Parenti è attore residente e ha generosamente raccolto il testimone, dando a questo indefesso paladino della virtù, una sincerità disarmante.
Commedia autobiografica, nemmeno tanto velatamente, Il misantropo rappresenta fino alla fine un testa a testa tra due opposte inclinazioni di carattere che in questo caso si danno nel rapporto uno contro tutti, declinato anche nei colori dei costumi.
Da una parte lui, solo e risoluto nelle sue convinzioni irrevocabili, dall’altra il mondo, anzi il genere umano, che non risparmia l’amata e l’amico fidato, rinnegato fin dalle prime battute per il suo eccesso di diplomazia mal riposta.
Da una parte la virtù a qualsiasi costo- abnegazione, isolamento, sprezzo per ogni forma di perbenismo, opportunismo, ambiguità, falsità -, dall’altra l’umanità variegata e cortigiana, fatta di seduzione, adulazione, pettegolezzi, intimidazioni sotto forma di false confidenze, invidie, gelosie, malcelate calunnie, finta modestia allestita ad hoc per estorcere lodi, e, qua e là, sprazzi di felicità spensierata, ché per essere felici si ha da esser spensierati.
L’idea che la felicità non sia di facile accesso ai pensanti si fa strada prima ancora che nell’anima dolente di Alceste, incupito misantropo ripiegato su sé stesso, nella leggiadria di questo mondo fatuo e cinguettante, che alita in superficie senza troppo penare, diviso tra “impostori e loro sostenitori”.
L’onestà ha un costo, i princìpi si pagano e una volta pagati ci si ritrova a scontarli con una solitudine che non ha scampo, rivendicata senza riserve.
Peccato soltanto che la donna amata, desiderata, spasimata, colei che sola è stata in grado di farti per un attimo allentare la morsa della ragione, peccato che ti ami, sì, perché Celimene è sinceramente innamorata di te, ma non lo è abbastanza da farsi carico della tua montagna di sacrosanti principi. Del tuo dissennato “piano di farla finita con il genere umano”. E chi mai lo sarebbe.
Perché il mondo fa schifo, d’accordo, ma forse una nicchia in cui accucciarsi si potrebbe anche trovare. Ed è lei, Celimene, la frivola amata che a tutti ammicca e sorride, ma che invece ama te, che te l’avrebbe dischiusa e che, forse, chissà, ti avrebbe salvato.
C’è una malinconia di fondo che nasce da questo senso di rinuncia alla felicità che invece sarebbe lì, a due passi da te, ma non precisamente come te la sei immaginata. C’è una resa di fronte alla vita e alle sue contraddizioni, che è probabilmente il tratto più autobiografico di quest’opera, scritta sulle ferite di un abbandono amoroso.
Ma c’è anche un’indulgenza velata verso la donna che ti ha abbandonato, una nostalgia e un rispetto per il femminile, una benevolenza alla quale non hai saputo resistere. C’è: nel tentativo di correggere la percezione immediata, di andare oltre i ricami e gli svolazzi di un abito di seta e la grazia compiacente che ti fa girare la testa.
Celimene non è soltanto giovane e bella, seducente o seduttiva: Celimene è intelligentissima, la più intelligente di tutti e di tutte. Sa evincere e dissimulare, sa tirare le fila, osserva e scruta, ha imparato a difendersi. Basterebbe rompere un po’ la corazza per accorgersi che vorresti quasi essere lei, così libera e spregiudicata, così amabile e indipendente, e nonostante ciò, onesta e sincera.
Ma Alceste, come Molière, non sa scegliere la felicità. Sceglie il buio, il nero di un abito che non è soltanto il colore del vestito ma un habitus dannato della mente e del cuore.
Succede, purtroppo, quando il sacro disprezzo per tutto quello che non è verità, rettitudine, bellezza, onestà, diventa la tua personale nolontà di esistere, diventa castigo e autoafflizione. Quando ti fai tu stesso capro espiatorio dei tuoi inossidabili meravigliosi principi.
Che questi umori e sentimenti arrivino chiari da una traduzione in rima, che siano in grado di innervare battute che potrebbero sparire, confuse in un suono e un ritmo orecchiabile, che ti consente quasi di battere il tempo, è la forza di questo lavoro.
Il poetar senza rima viene detto poesia in prosa e poi va a vedere se è poetare davvero. Qui i versi in rima servono il miglior teatro di prosa, sono cioè battute precise, strutture lessicali e fonetiche per far passare intenzioni, colori, sentimenti, emozioni.
Un risultato possibile grazie a una compagnia coesa di altissimo livello, con attori capaci di scongiurare, accanto al rischio macchietta, il rischio cantilena, di essere profondamente in ascolto, in grado di rendere vive e plausibili le relazioni e le incrinature interne a ciascun personaggio. Che non sono poche ed è giusto che siano portate alla luce.
Il tutto, cavalcando al meglio i siparietti più esilaranti come il fronte a fronte tra Alceste e Oronte (azzeccatissimo Corrado d’Elia), il sedicente poeta che oggi diremmo un trombone tra i tanti, di quelli che gli ostinati amanti della poesia sopportano peggio di quanto è riuscito a fare il misantropo.
Quello che mentre ti chiede un giudizio spassionato sui suoi imperdibili versi mette le mani avanti come il finto modesto in cerca di endorsement ma poi ti querela se storci un po’ il naso.
(E qui mi scappa di mano una considerazione scorretta: un po’ come certi artisti di ogni genere e grado che “io da te accetterei anche una stroncatura”, salvo poi oscurarti per un benevolo appunto).
Gli attori meritano tutti di essere citati: oltre a Fausto Cabra (Alceste), sono Marina Occhionero (Celimene), Angelo Di Genio (Filinte), Corrado D’Elia (Oronte), Matteo Delespaul, Pietro De Pascalis, Filippo Lai, Margherita Laterza, Francesco Maisetti, Guglielmo Poggi, Andrea Soffiantini, Maria Luisa Zaltron.
Lo spettacolo, visto a Milano il 24 novembre, sarà al Teatro Piccinni di Bari dal 28 novembre al 1° dicembre e poi a Brescia, Teatro Sociale, dal 4 all’8 dicembre 2024.
di Alessandra Bernocco
Il Misantropo di Molière/Progetto e collaborazione alla traduzione di Andrée Ruth Shammah e Luca Micheletti/Regia Andrée Ruth Shammah/Traduzione Valerio Magrelli/Con Fausto Cabra e con (in o.a.) Matteo Delespaul, Pietro De Pascalis, Angelo Di Genio, Filippo Lai, Margherita Laterza, Francesco Maisetti, Marina Occhionero, Guglielmo Poggi, Andrea Soffiantini, Maria Luisa Zaltron e la partecipazione di Corrado d’Elia/Scene Margherita Palli/Costumi Giovanna Buzzi/Luci Fabrizio Ballini/Musiche Michele Tadini/Cura del movimento Isa Traversi/Produzione Teatro Franco Parenti e Fondazione Teatro della Toscana