Non so che cosa sia peggio: non sapere chi sei ed essere felice,
o diventare quello che hai sempre voluto essere, e sentirti solo.
(Daniel Keyes)
Si intitola Stabat Mater e infatti la mater stabat. Stava la madre comodamente adagiata su una poltrona, un metro sopra il resto del mondo. Non già inginocchiata e straziata ai piedi del figlio crocifisso, ma composta e immobile nella sua torre di controllo, di profilo per dare meno nell’occhio (presidio garantito ma apparentemente distratto) e probabilmente all’oscuro che la sua effige incombesse su chi si trovava di sotto.
Proiettata su uno schermo, questa volta frontale, grande quasi quanto la scena.
Parliamo dello spettacolo andato in scena alla Sala Mercato di Genova dal 1° al 6 aprile 2025, diretto e interpretato da Liv Ferracchiati insieme a Francesca Gatto, Chiara Leoncini, Livia Rossi, cioè del riallestimento, con cast rinnovato, di un precedente lavoro del 2017 (secondo capitolo della Trilogia sull’identità di cui fanno parte anche Peter Pan guarda sotto le gonne e Un Eschimese in Amazzonia) che vedeva Laura Marinoni nel ruolo della madre, allora ripresa in una gigantografia video.
Qui la madre, interpretata da Francesca Gatto, è anche presente in carne e ossa ma resta madre matrona sopra tutto, sopra tutti, sopra tutte. Nella scena scarna di Giuseppe Stellato, verticalmente pensata su tre livelli, lei sta al vertice e da lì non si schioda.
Il figlio invece sta sotto, cercando di mettere insieme pezzi sparsi di vita. Comunicandoci tra le altre cose che “si può anche avere il ciclo con i boxer”. A noi è arrivato mannaggia al ciclo che mi si macchiano i boxer. La madre invece ha continuato a chiamarlo figlia: conta il ciclo, i boxer non c’entrano.

Noi siamo il pubblico e Liv Ferracchiati, che qui interpreta uno scrittore, è un regista uomo in corpo di donna, benché fuori dai boxer la scelta identitaria sia molto chiara.
Lo dice persino la legge che gli ha riconosciuto lo status di maschio, fondamentale dettaglio di cui la sottoscritta è a conoscenza in quanto Liv lo ha serenamente annunciato (immagino anche) via social, con tanto di carta di identità, costata “tre anni di attesa e settemila euro di spese, tra procedure legali e perizia psichiatrica”.
Dunque di che si parla? E di chi? Chi è al centro di questa storia che si va a raccontare? Non qualcuno “con due seni e una vagina” poiché “il fuoco della storia è un altro”.
Sì, ma quale. Non è l’identità di genere che in quanto rivendicata è inequivocabile; non è il disagio di una mancata corrispondenza, o almeno non solo; non è nemmeno il mito frantumato della corrispondenza né la fierezza di esserne immuni. Meno che mai l’autocompiacimento fatto passare come conquista.
Il focus mi è parso risiedere nelle relazioni, spesso sbilanciate, distorte, umorali e a volte, sì, sestessocentriche. Calibrate su un ipertrofico ego che non sa rinnovarsi ma dispensa consigli ed esercita imperterrito il suo amoroso controllo.
“Il primo strappo con mia madre è stato quando ha saputo che mi piacciono le donne”. La dinamica: la madre apprende dal marito che la figlia è lesbica; la madre le porge una spremuta d’arancia.
Non si dice se allora ci fu qualche parola tra loro; certo che adesso le parole sono vane e corrono sul filo del telefono e di inutili tentativi di rimozione. Raccomandazioni di circostanza che lasciano il tempo che trovano perché da lontano è più facile non recidere il cordone senza inoltrarsi nelle interiora: basta parlare di cibo, di cene, di quotidiane premure mancate, come una bella spremuta d’arancia e non pensiamoci più. La verità è che lei ha sempre scelto di “fare la madre che mi ama piuttosto che esserlo”.
Ora, immagino il coro in difesa di tutte le madri poco attrezzate a gestire le intemperanze dei figli, figuriamoci quelle di chi nasce in un corpo e vorrebbe essere nato in un altro. Ma immaginiamo anche loro.
Sentirsi chiamare Anna se sai di essere Pietro. Di esserlo sempre stato. Pietro, Paolo, Liv. “Non ho mai avuto dubbi sulla mia identità sessuale”. La madre amorosa che si rivolge al figlio come a una figlia che non è mai stata tale, ti toglie il respiro. A maggior ragione se è mater amorosa che stabat e stabat e stabat, ininterrottamente stabat in cima ai tuoi movimenti a cercar di dirimerli da una postazione sicura.
Finisce che da quella inattaccabile cima la mater amorosa migri verso la cima dei tuoi pensieri, lei sempre immobile, tu a dimenarti tra un’analista che ti diagnostica il solito Edipo non superato (“e lei crede ancora a queste stronzate?”) e una fidanzata che non ne può più di essere interrotta tra un bacio e il suo seguito da una telefonata nel cuor della notte.
Insomma le relazioni si complicano e l’effetto domino è il risultato.
Relazioni che sono il focus della questione e dello spettacolo.
Perché accanto al rapporto ingombrante tra un figlio e la madre c’è il rapporto di un uomo con il femminile, rapporto che nel testo di Ferracchiati si esplica nella relazione con la compagna ipotetica e con l’analista, destinatarie entrambe di una seduzione che molto ha a che fare con il dongiovannismo. E un po’ mi dispiace.
Perché qui mi chiedo cosa c’entri la madre. Se il tuo amato compagno ti dice che la tuta che indossi è la “metafora della fine”, cosa c’entra sua madre. Se Ferracchiati ci dice che ha la fila di donne che lo corteggiano cosa c’entra sua madre, se anche nel setting probabilmente junghiano si industria per sedurre persino l’analista, cosa c’entra sua madre.

Temo o semplicemente registro che Liv Ferracchiati sia un vero uomo di teatro, non di quelli arrivati dalla tv alla direzione degli Stabili per prestare nome e ruolo a chi ci sa fare. Un uomo di un tempo, d’accordo, ma di teatro teatro. Un po’ arroccato in certi cliché da buon seduttore, ma pur sempre uno che il teatro lo fa per mestiere. Dopotutto quanti uomini di teatro hanno sedotto generazioni di donne disposte a girare con calze a rete e tacco dodici tra la cucina e la stanza da letto? Se ne sei consapevole, che seduzione sia. Ci penseranno le donne a starci o a difendersi. Se ne sei consapevole.
Perché nell’ipotesi che Ferracchiati lo sia (e mi piace pensare di sì) potrebbe anche essere che qui si faccia il verso ai seduttori di un tempo – osservati a occhio nudo è più che sufficiente -, visto che ancora ne circolano sotto verosimili spoglie, timorosi, impauriti, ma riconoscibili.
Quel che più conta è che Ferracchiati il teatro lo conosce e lo sa scrivere. Benissimo. I suoi dialoghi sono moderni, veloci, performativi. Incidono la scena come una sciabola che sa bene dove andare a colpire. Un goleador che segna ogni volta che tira. Con un’ironia diffusa che dello spettacolo è la cifra stilistica, il filo rosso attraverso cui raccontare di sé, dopo che il brutto è decantato. Forse non tutto, ma quanto basta per poter raccontarlo senza cedere all’autocommiserazione o all’ira funesta.
Poi che cosa macini ciascuno di noi quando si ritrova da solo non lo possiamo sapere. E non serve saperlo. Né serve sapere cosa c’è e cosa succede sotto un paio di boxer.
Battute come “non è poesia, vado solo a capo” o “cosa direbbe Bergman di tutti questi ok” sono la presa in giro di un mondo, così come le scivolate di senso sotto forma di sillogismi bizzarri, magari non il frutto di una mirata operazione retorica, ma certamente il segno di una vivacità di scrittura che è stata persino paragonata al primo Woody Allen. Un esempio?
Madre: Ho comprato i fiori.
Lui: Perché?
Madre: Per portarli al cimitero.
Lui: Non mi piacciono i cimiteri. Stai coi vivi. Papà?
Mamma: È vivo, ma dorme.
E poi ci sono i momenti in cui vorresti abbracciarlo. “Darei un rene per essere padre”: avrei voluto abbracciarlo. E chissà quante donne darebbero un rene per fare un figlio con un uomo che darebbe un rene per essere padre.
di Alessandra Bernocco
Crediti foto: Luca Del Pia
Stabat Mater/Drammaturgia e regia Liv Ferracchiati/con (o.a.) Liv Ferracchiati, Francesca Gatto, Chiara Leoncini, Livia Rossi/Aiuto regia Piera Mungiguerra/Scene Giuseppe Stellato/Costumi Laura Dondi/Luci Emiliano Austeri/Suono spallarossa/Produzione Centro Teatrale MaMiMò, Marche Teatro, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Tournée: Torino, Teatro Gobetti, dal 6 all’11 maggio; Milano, Teatro Grassi, dal 27 maggio al 1° giugno.