Il rimosso che, non visto, tutto muove
(Fausto Cabra)
Di queste Schegge disordinate a inchiostro policromo, spettacolo di Fausto Cabra, regista, testo di Gianni Forte, con Raffele Esposito, Anna Gualdo ed Elena Gigliotti, si è già scritto moltissimo. I feedback di pubblico e critica che passano anche attraverso i social, megafono non soltanto di pance ma anche di teste ben avvezze al teatro, sono sostanzialmente concordi nell’approvare l’operazione.
Difficile e certamente rischiosa. Ma se non si rischia a teatro, allora dove si può?
Il rischio è insito nella scelta stessa del tema che prende ispirazione da un caso giudiziario che sconvolse l’America negli anni Settanta: l’assoluzione per infermità mentale di Billy Milligan, accusato di avere rapito, violentato e rapinato tre studentesse.
Assolto perché non responsabile, non responsabile perché dissociato. Questa la tesi della difesa e della perizia psichiatrica, secondo la quale la sua individualità era abitata da ventiquattro personalità differenti e irrelate, ognuna delle quali agiva autonomamente.
E se al caso si sono rifatti negli anni cinema e letteratura dedicata, alla base di questo spettacolo, prodotto dal Teatro Franco Parenti di Milano dov’è in scena fino a domenica 13 aprile 2025, c’è invece la volontà dichiarata di indagare, attraverso i meccanismi di dissociazione che s-regolano la mente umana, il rapporto tra realtà e finzione, tra verità, menzogna e automenzogna.
Questa, soprattutto: l’automenzogna che ci raccontiamo per non accogliere la differenza, la frantumazione dell’io che si rifrange in altri da sé meno compiacenti e rassicuranti.
Preferiamo raccontarci che siamo “noi stessi”, preferiamo raccontarci come coerenti e affidabili, attribuiamo a quel connubio inafferrabile di coscienza e volontà che si chiama identità, un surplus di valore e una responsabilità di riflesso, ci carichiamo di aspettative che non riusciamo a onorare e le proiettiamo sul prossimo, chiamato a corrispondere.

Invece, scrive Cabra nelle note di regia, “accettare che la propria identità sia in continuo riassestamento e un continuo compromesso tra parti di sé, permette anche di connettersi empaticamente all’altro”.
Non so se l’intento sia indagare e capire che cosa ce lo impedisce, ma certamente la domanda resta aperta anche dopo: perché siamo così affezionati all’imbroglio, così inetti a smascherare l’inganno, così refrattari di fronte alla trasformazione, rassegnati a una chiusura che penalizza i rapporti e scoraggia il mutamento?
Domandiamocelo, pure se non sappiamo risponderci. Magari prima o poi uno spiraglio si apre. Una scheggia. Una scheggia di memoria che ci ricorda di quella volta che l’abbiamo pensata in un modo e fatta in un altro, o fatta in un modo e raccontata in un altro: consapevoli o meno, dissociati o meno, tutti d’un pezzo non lo eravamo.
E, indipendentemente dal sapere se il Billy di turno sia colpevole o innocente, manipolatore della giustizia per farla franca o vittima incolpevole dei propri fantasmi, la frammentarietà ci è connaturata. E “quel rimosso che non visto tutto muove”, muove anche noi.
Nel caso di Billy esonda, perché “la sua mente non è un vuoto ma un troppo, uno straripamento, uno sciame di dimensioni sovrapposte”.

Seguire queste sovrapposizioni senza disperdersi in esse è un po’ la sfida di questo lavoro che si articola su tre piani interconnessi – legale, psicologico, teatrale – servendosi anche di precisissimi dispositivi multimediali.
Noi assistiamo allo straripamento, ce l’abbiamo di fronte negli oggetti e negli arredi, nelle voci, nei suoni, nei rumori, in una tv che ugualmente trasmette telefilm anni Settanta e schegge di Shining, nei suoi disegni naif proiettati su uno schermo laterale, in tutti i sintomi frammentati della sua mente compressa, obnubilata e oscura. Illuminata soltanto da schegge di memoria che lo trafiggono come laser e gli fanno credere quel che non è.
Raffaele Esposito offre una prova di grande forza e versatilità, sia fisica sia vocale, attraversando con il corpo, il volto, la modulazione dei toni e una gestione costante della temperatura emotiva, le voci sommerse di questa mente dislocata nel tempo e nello spazio: Alice, Pollicino, Demetrio, Jare. La donna, il bambino abusato e indifeso, lo stupratore feroce.
Anna Gualdo ed Elena Gigliotti, entrambe impegnate in più ruoli – psicologa e madre di Billy la prima; infermiera, donna delle pulizie, studentessa, avvocata la seconda, sono anche chiamate a sostenere il peso delle allucinazioni di Billy, a smuoverne i ricordi, a sondarne la psiche.
L’impressione è che si muovano, sorvegliatissime, su un tracciato molto rigoroso, un po’ come i segni nei set cinematografici, che orientano e modificano le relazioni tra loro, incrociate e sempre diverse, e con le molteplici emanazioni di Billy.
Cabra, alla sua diciannovesima regia (curriculum alla mano), ha giustamente scelto di giocarsela tutta e il risultato lo premia. Sempre tenendo fede a una poetica che confida nel collettivo, nella distribuzione di forze tenute a operare in sinergia, fin dall’inizio, ha costruito uno spettacolo chiaro, cercando di dipanare e riordinare il caos che dalla mente di Billy rischiava di travasarsi in quella del pubblico che ne è uscito disturbato e contento ma non confuso.

Si percepisce un imprinting da creatore di spazi architettati con mano sicura che gli deriva probabilmente dai suoi precedenti studi in ingegneria aerospaziale, ma anche dal suo maestro, Luca Ronconi, delle cui invenzioni ampiamente si sa.
Il testo di Gianni Forte, commissionato e costruito in fieri grazie a un rimbalzo virtuoso di indicazioni, prevede una trama suddivisa in preludio, quattro rapsodie e un postludio e lo sfondamento della quarta parete in una prospettiva metateatrale.
Soluzione che permette agli attori di riportare lo spettatore al di qua del flusso emotivo e della rapsodica concentrazione di immagini che si succedono sia sul grande schermo disposto sul fondale a rimandare i tanti volti e personalità di Billy, sia in scena dove lo vediamo ammanettato o giocherellone, strafottente e provocatore, aggrovigliato alla vittima o sanguinante.
Ma tranquilli che anche il sangue, qui, “è salsa di pomodoro”.
La terra no, la terra a palate con cui Billy-Raffaele è stato sepolto, è terra vera. Ed è l’immagine fortissima con cui si chiude lo spettacolo, una scena lenta, in certo senso persino oleografica, per immortalare il ricordo che più di tutti si voleva scordare.

Schegge di memoria disordinata a inchiostro policromo è un tassello importante della corrente stagione teatrale, un bell’esempio di coordinazione di forze abituate a cooperare: dalle scene di Stefano Zullo al disegno luci di Martino Minzoni, dai costumi di Eleonora Rossi alla grafica e contributi video di Francesco Marro, fino alla drammaturgia musicale di Mimosa Campironi, compositrice eletta e accreditata sul campo, che unisce musiche originali ispirate al rock anni Settanta e canzoni cult come How deep is your love dei Bee Gees e Psycho Killer dei Talking Heads. La consegna? “Riprodurre i suoni di un trauma e farne musica. Perché questa è la grande sfida: trasformare l’orrore in meraviglia e non ripetere più”.
di Alessandra Bernocco
Uno spettacolo di Fausto Cabra/Drammaturgia Gianni Forte/Con Raffaele Esposito, Anna Gualdo, Elena Gigliotti, /Scene Stefano Zullo/Disegno luci Martino Minzoni/Costumi Eleonora Rossi/Musiche Mimosa Campironi/Grafica e contributi video Francesco Marro/Produzione Teatro Franco Parenti