Poche righe su un film immenso, perlopiù destinate a chi lo ha già visto. The old oak di Ken Loach, in questi giorni nelle sale, è quel film immenso. Dove confluisce ad un tempo empietà e pietas o, meglio, dove l’empietà si sublima in pietas. Pare impossibile invece. Invece accanto alla fotografia di un’umanità cattiva e incattivita, resa con il suo solito occhio leale: leale, non cinico, un occhio capace di guardare le derive dell’animo umano così come sono, dure, crude, spigolose, ripugnanti, Loach ci fa vedere che la pietas è ancora possibile. Anche laddove non te l’aspetti, anche laddove avresti voluto, tu spettatore, punire i colpevoli, vederli irrisi almeno alla fine, in cerca di una catarsi che invece il regista non ti concede.

Il fatto che i due spettacoli con Lino Musella, unica voce in scena, siano stati rappresentati a ruota, tre giorni uno e tre giorni l’altro, offre bene l’occasione di riconoscere la versatilità di questo attore, defilato dal mainstream ma molto seguito e molto amato da un pubblico sempre più fidelizzato. Musella è un creativo che inventa e reinventa anche se stesso, oltre l’interprete al servizio di un ruolo.

Sul Binario 30 della stazione Termini i treni per le destinazioni che ci stanno più a cuore sono a rischio deragliamento.
Il Binario 30 è uno spazio virtuoso creato dal nulla al civico 159 di via Giolitti, ovvero la prima parallela dei binari ferroviari.
L’idea di rimettere a nuovo uno spazio che non funzionava nemmeno come magazzino, creando dal nulla un polo di arte e cultura, in uno dei  quartieri  liminali della capitale, senz’altro il più multietnico, venne a un’attrice e regista allevata alla Bottega di Vittorio Gassman, Caterina Venturini.
E noi l’abbiamo intervistata.

Che fine fa l’umano in un contesto storico disumano? Attorno a questa questione, innanzitutto, si sviluppa Il caso Kaufmann, romanzo storico di Giovanni Grasso da cui Piero Maccarinelli ha tratto lo spettacolo omonimo, protagonisti Franco Branciaroli, Viola Graziosi e Graziano Piazza.
Al centro, il rapporto tra un uomo maturo e una giovane donna. A latere, il fatto che l’uomo sia ebreo e la donna ariana. Il romanzo, e di conseguenza lo spettacolo, è lo sguardo inerme che constata che gli accidenti diventano sostanza e che quello che dovrebbe essere corollario, diventa centrale, prepotente, dirimente. Un ebreo non può amare un’ariana, un ariano non può essere amico di un ebreo. Siamo in Germania, un anno prima della promulgazione delle leggi razziali e il clima antisemitico è strisciante.

Il grande imprenditore che si è fatto da solo e ha fatto la fortuna di una buona parte del nostro Paese, il simpatico, il generoso, quello che se sei ammaestrato a questuare come si deve, magari povero malato e bisognoso di cure costose, se sai umiliarti e prostrarti di fronte al benefattore, era anche capace di staccarti un assegno, detto fatto, con gli occhi lucidi. Colui che mandava il cesto natalizio ai (prevalentemente alle) dipendenti dei suoi grandi magazzini, le mandava in gita e in villeggiatura, il liberista senza riserve che permetteva ai suoi selezionati direttori di giornali di fare un po’ il cavolo che volevano.

Il racconto di quel che succede lì dentro è affidato all’ancella che è memoria del prima e anticipazione del poi, passato e futuro improvvisamente azzerati da un qui e ora claustrofobico. Dove si è soli, irrimediabilmente isolati eppure spiati, controllati, eterodiretti. Dove ogni residuo di coscienza e volontà individuale è destinato a soccombere, normalizzato dalla legge e annullato nel potere degli uomini al comando, i Comandanti.