Tracce evidenti dei riflessi dell’arte pittorica di derivazione partenopea si riscontrano nel modesto patrimonio artistico delle chiese di San Giovanni in Fiore (Cosenza), descritto, dal punto di vista architettonico e pittorico, in un testo del 2014 di Giovanni Greco.
Più che l’indagine iconologica, volta a spiegare il significato culturale di elementi contenuti in un’opera d’arte, interessa rintracciare elementi di contatto tra due realtà, in un momento in cui la Calabria assumeva centralità all’interno del Regno Borbonico.

Perfect Days è un film del 2023 diretto da Wim Wenders. Lingua originale, giapponese. Paese di produzione, Giappone, Germania. Anno, 2023.
Il film doveva inizialmente essere un documentario sulle toilette pubbliche, parte del progetto The Tokyo Toilet, ed era stato commissionato espressamente a Wim Wenders in virtù delle sue precedenti felici esperienze con il cinema giapponese. Lavorando al film, però, il regista ha preferito realizzarlo come un’opera narrativa, mostrando le varie toilette come i set dove si svolgono le vicende dei personaggi.

Si può essere modernissimi e filologici a un tempo. Soprattutto se si affronta un classico. Un esempio arriva dal recente allestimento di Riccardo III diretto da Luca Ariano presso il City Lab 971 di Roma, uno spazio già di per sé generato da un pensiero moderno mirato alla riqualificazione di un edificio industriale abbandonato da anni, l’ex Cartiera di via Salaria, ora polo multiculturale aperto al pubblico.
Lì è nato questo spettacolo, da un progetto di Ariano e Pietro Faiella (nel ruolo di Riccardo), prodotto da Officina Teatrale di Massimo Venturiello, altro centro virtuoso di creazione e produzione che gestisce gli spazi di Officina Pasolini.

Poche righe su un film immenso, perlopiù destinate a chi lo ha già visto. The old oak di Ken Loach, in questi giorni nelle sale, è quel film immenso. Dove confluisce ad un tempo empietà e pietas o, meglio, dove l’empietà si sublima in pietas. Pare impossibile invece. Invece accanto alla fotografia di un’umanità cattiva e incattivita, resa con il suo solito occhio leale: leale, non cinico, un occhio capace di guardare le derive dell’animo umano così come sono, dure, crude, spigolose, ripugnanti, Loach ci fa vedere che la pietas è ancora possibile. Anche laddove non te l’aspetti, anche laddove avresti voluto, tu spettatore, punire i colpevoli, vederli irrisi almeno alla fine, in cerca di una catarsi che invece il regista non ti concede.

Il fatto che i due spettacoli con Lino Musella, unica voce in scena, siano stati rappresentati a ruota, tre giorni uno e tre giorni l’altro, offre bene l’occasione di riconoscere la versatilità di questo attore, defilato dal mainstream ma molto seguito e molto amato da un pubblico sempre più fidelizzato. Musella è un creativo che inventa e reinventa anche se stesso, oltre l’interprete al servizio di un ruolo.

Benché ci consideriamo evoluti, non lo siamo. Perché finché pensiamo che queste sono cose che accadono solo in periferia, in luoghi dimenticati da Dio e comunque solo agli altri, non ne usciamo. Finché non riconosciamo che la violenza, non per forza fisica, il maschilismo, non per forza ostentato, sono anche nostri, non risolviamo niente.

Qui ti toccava sentire cosa fa la gente quando si tira giù le braghe o cosa vorrebbe fare quando non può. Voi non avete idea di cosa si nasconde nella gente quando si infila dentro un letto. Oddio, anche fuori a dire il vero. La dipendenza da sesso è una cosa strana, la gente è una cosa strana, il sesso è una cosa strana.