Con Il soccombente siamo di fronte a un lungo e ininterrotto monologo assai difficile da immaginare sulla scena. Un testo privo di azioni da agire al presente, un flusso orizzontale che rischia (rischierebbe) di diventare una soporifera resa alle parole, restituibile con una o due note soltanto. Qualcosa che non sarebbe pensabile nemmeno al leggio.
Eppure è un testo che sfida i registi e solletica gli attori. E se qualche anno fa era toccato a Roberto Herlitzka diretto da Nadia Baldi, questa volta ad affrontare il primo atto della Trilogia sulle Arti è Federico Tiezzi e la voce narrante è quella di Sandro Lombardi.
Teatranti che le sfide le amano e spesso le vincono.
Alla base di ogni interrogativo possibile c’è la questione del perché soprattutto le donne vengano colpevolizzate per la loro libertà sessuale, apparentemente auspicata, anche dagli uomini, e invece sempre più spesso mortificata, abusata in rapporti violenti di prevaricazione.
A monte de Il crogiuolo ci sono due diverse condizioni dello spirito: l’ignoranza disarmante che ti consegna a superstizione e manipolazione e, di contro, la strumentalizzazione di questa stessa ignoranza da parte di una teocrazia che non cede le armi, anzi ne approfitta per riconquistare terreno.
Mio padre, che era comunista e che faceva l’operaio alla Ansaldo, sosteneva che babbo natale in realtà fosse un eroe della rivoluzione russa, una specie di ladro gentiluomo che rubava i giocattoli ai bambini ricchi per darli a tutti gli altri e, soprattutto, che non si chiamava Santa Claus ma Santa Claus Kinski.
L’idea è buona e i tre sono bravi, indubbiamente. Perché un conto è una canzoncina in rap, un conto è rappare una poesiola, un altro è reggere uno spettacolo intero…
Per la danza di David Parsons il quasi impossibile si è addirittura canonizzato in una coreografia cult datata 1982 che Parsons creò per sé stesso, precedente la fondazione della compagnia e che fa venire la tentazione di togliere il quasi. Si tratta di Caught, un assolo che unisce arte e tecnologia sulle musiche di Robert Fripp in cui il danzatore appare sospeso in aria, fissato come in un fermo immagine che riproduce figure classiche di repertorio o nuove posizioni: per una frazione di secondo, forse meno, ma tu ti sorprendi a pensare che forse potresti anche scattare una foto.
Un po’ è anche questo il senso di questo spettacolo: suggerire un modo indolore per stare dentro la gabbia che l’esistenza riserva a ognuno di noi. Ognuno ha la sua: più o meno dorata, più o meno confortevole, più o meno trasparente. E l’ironia strappata al dolore, la risata sommessa che l’attrice ha più volte innescato, è la rete che ci salva attraverso le sbarre. Avercela.
Consapevoli che il mutamento sociale abbia come sua componente lo spontaneo aggregarsi, integrarsi di emozioni/umori (oppure deliri), pensieri/ideali collettivi, a chi osserva i cambiamenti, nell’analisi dei fenomeni culturali e sociali del nostro tempo, risalta che il non-luogo dei social network alimenta, spesso, atteggiamenti antisociali/depressivi che nella vita reale già sono, o purtroppo diventano, (gravemente?) patologici.
Aspetta. Ferma, ferma, come sarebbe a dire che è finita? E l’amore, la passione e tutto il resto? No, dico, dove ti credi di andare? Cristo santo bambina, non puoi farmi questo ora. Proprio adesso che stavamo per mettere in scena il numero con il nano e tu vestita da babbo natale con il culo di fuori e una renna di peluche a grandezza naturale. Roba forte, da spellarsi le mani, non puoi farmi questo. ..
Regia di Barrie Kosky con i Berliner Ensemble
Assistendo a L’opera da tre soldi con i Berliner Ensemble diretti da Barrie Kosky, al Teatro Argentina per Romaeuropa Festival, forse l’ospitalità più attesa, vero asso nella manica di questa edizione 2022, si ha l’impressione forte di essere di fronte a un teatro con una marcia ‘alternativa’, non direi una marcia in più, ma una marcia radicalmente diversa dal modo, anzi dai modi, in cui procede il teatro nelle pur varie e variabili forme a cui siamo consueti.