Carmelo Rifici, che ha firmato la regia e la traduzione (questa insieme a Tindaro Granata), scrive nelle note che con La pulce nell’orecchio Feydeau “affronta il rapporto tra lingua, potere e relazioni umane”. E in effetti il linguaggio è centrale, poiché ogni personaggio è informato da una propria parlata, che definisce non soltanto l’indole ma un’appartenenza precisa, l’origine, le aspirazioni, i desideri che covano, magari nascosti dentro un armadio o nella stanza di un equivoco albergo dove regole e licenze liberamente si scambiano…
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Con quattro stagioni alle spalle il Moby Dick del Teatro dell’Elfo ha finalmente raggiunto la capitale, al Teatro Vascello, dove ha registrato una settimana sold out (dall’11 al 16 marzo). Evviva. Perché perderlo sarebbe stato proprio un peccato. Il testo è quello di Orson Welles che dal romanzo di Herman Melville partorì quest’opera in versi sciolti rappresentata a Londra nel 1955 e rititolata Moby Dick alla prova, ora per la prima volta in Italia nella bella traduzione di Cristina Viti. E lo spettacolo, da locandina “di Elio De Capitani”, è il risultato di un lavoro corale, fisico, energico, possibile grazie a una virtuosa coordinazione di forze. La bella cifra dell’Elfo, la squadra, il lavoro artigiano, gli attori stabili, gli assidui, i fedeli, la contaminazione che genera sinestesia.
“L’età è come l’alcol: c’è chi la regge e chi no”. La battuta è di una deliziosa signora che potrebbe essersi scolata un litro di whisky senza perdere un colpo. Si chiama Louise Wilberforce, di professione affittacamere. È lei la protagonista de La signora omicidi, lo spettacolo ispirato al racconto di William Rose, Lady Killers, da cui il film omonimo di Mackendrick, adattato per la scena da Mario Scaletta e diretto da Guglielmo Ferro, al Teatro Quirino di Roma fino a domenica 16 marzo.
Nel ruolo una Paola Quattrini che non so dire se sempre più sorprendente oppure no, perché questa magnifica signora del nostro teatro ormai ci ha a tal punto abituati a vederla ballare saltare fare quasi spaccate piroettare sul palcoscenico che non ci sorprendiamo più.
Il grande vuoto di Fabiana Iacozzilli e terzo capitolo della Trilogia del vento dopo La Classe e Una cosa enorme.
Un viaggio feroce e pieno di grazia attraverso le vicende di una famiglia normale che si ritrova a vivere una situazione anormale, cercando di normalizzarla come si può. Di renderla allegra e inoffensiva per quanto è possibile, facendo in modo che il dolore sia sopportabile.
Fresco – o forse si potrebbe addirittura scrivere “freschissimo”, dato che le notizie al proposito sono state trasmesse worldwide direttamente dagli Stati Uniti d’America lo stesso giorno in cui la pellicola ha debuttato sugli schermi italiani – di ben 8 nomination ai prossimi Academy Awards, il film diretto da James Mangold ha la durata di 140’ ed è interpretato, nei ruoli principali, da Timothée Chalamet, Edward Norton, Monica Barbaro e Elle Fanning.
Molto più di un cavallo di battaglia, Migliore è per Valerio un pezzo di cuore che sanguina al pensiero di un amico che non c’è più, Mattia Torre, regista e autore di questo affresco scritto apposta per lui, cucitogli addosso come un perfetto abito di sartoria.
Storia comica e tragica di un uomo ordinario che paga il fio di una buona azione dai risvolti infelici, il monologo è in realtà una polifonia di voci che offre il fianco a un virtuosismo da interprete navigato.
Un piccolo evento che ancora una volta testimonia del potere salvifico della scrittura. Del suo essere luogo di libertà e di riscatto, in cui tutto è possibile, tutto è lecito, e i mostri arretrano perché il tuo sguardo fattosi lucido incute loro paura.
Si tratta di Una culla sbagliata, presentato al Teatro Altrove di Roma dal 10 al 12 gennaio 2025.
Tratto dal bestseller autobiografico di Jeanette Winterson, Perché essere felice quando puoi essere normale? vede in scena Ottavia Bianchi, anche curatrice dell’adattamento e coregista insieme a Giorgio Latini.
Cahiers d’Écriture I e II sono due studi preparatori per À la Recherche du Temps Perdu di Marcel Proust che si annuncia composta da tre parti collegate, da rappresentarsi separatamente in tre giornate.
Un grande evento, nella fattispecie detto “Accadimento drammatico”, previsto per il 2027 e che quindi si immagina fin d’ora frutto di un lento e capillare processo immersivo nell’ “opera cattedrale”.
Un Misantropo che più Molière non si può, quello allestito dal Teatro Franco Parenti di Milano, al secondo anno di repliche. Mi viene da dire finalmente un classico fatto come un classico. Uno di quei lavori che non ti aspetteresti e che quindi ti stupiscono. Lavorato di cesello, dalla traduzione alle luci al trucco e parrucco ai minimi accessori, quelli che magari nemmeno si distinguono già dalla quarta fila.
Corpi. Agglomerati di corpi dai quali si staccano scampoli organici che poi si scoprono interi, figure erette che danno inizio a una danza tribale scandita dal battito dei piedi, sempre più insistente e frenetico, sostenuto dal rumore forte dei respiri e da versi primordiali che segnano il tempo. Per poi riaccasciarsi a terra, sfiniti, a ricostituire con la confusione dei corpi un’interezza.