Esistono uomini belli, liberi e magnetici anche nelle prigionie urbane. Uomini che noi, fantomatici e maldestri giudici di tanti talent-show quotidiani, dovremmo imparare a leggere dentro, magari accendendo una X, e magari canticchiando quel motivetto che più o meno fa “Palestina libera, Palestina li-be-ra…”.
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Il grande imprenditore che si è fatto da solo e ha fatto la fortuna di una buona parte del nostro Paese, il simpatico, il generoso, quello che se sei ammaestrato a questuare come si deve, magari povero malato e bisognoso di cure costose, se sai umiliarti e prostrarti di fronte al benefattore, era anche capace di staccarti un assegno, detto fatto, con gli occhi lucidi. Colui che mandava il cesto natalizio ai (prevalentemente alle) dipendenti dei suoi grandi magazzini, le mandava in gita e in villeggiatura, il liberista senza riserve che permetteva ai suoi selezionati direttori di giornali di fare un po’ il cavolo che volevano.
La pièce è la cronaca di una rivolta urbana violenta, radicale, fuori dagli schemi delle rivolte di quegli anni. Si tratta di una sommossa trasversale strumentalizzata dal grido dei “Boia chi molla”, di quella destra eversiva responsabile, tra le altre, di quelle stragi che da piazza Fontana a Milano, a piazza della Loggia a Brescia, alla strage dell’Italicus, era passata, nel 1970, anche da Gioia Tauro con il causato deragliamento del Treno del Sole che collegava Siracusa a Torino Porta Nuova.
Stiamo tutti spalmati e pressati, carne macinata e farcita dentro un vagone ripieno come il budello di una soppressata di Calabria, con tutto il suo armamentario di pepe nero, pepe rosso e peperoncino, secondo i comandamenti scolpiti da qualche barbuto illuminato, sulle sacre e piccanti tavole della tradizione silana di Acri e Serra San Bruno.
Sono andata a Cutro, non c’era più nessuno, eravamo io, un amico in silenzio, atterriti, faceva un freddo e c’era un vento…e poi c’era il suo bambino, che continuava a dire “dobbiamo pregare, ci sono le croci”, il mare era sempre cupo e agitato, e poi sì, c’erano quelle piccole croci fatte con i legnetti senza nome, gli immigrati non portano mai il loro nome qui da noi, e infine piccoli giocattoli sfigurati dalla salsedine in accumulo, come spazzatura qualsiasi trascinata lì dalla corrente. Plastica che resta, come la plastica che affoga tutto ormai. Erano arrivati lì, a riva, e sono morti. Per colpa loro!
Mentre le migliori firme si cimentano in teorie che sfociano nel complottismo politico, una cosa ci appare ormai evidente: siamo alla fine della tv culturale. Attenzione: non quella di Rai storia e Rai 5, e meno male che esistono, no. Ma quella indirizzata al grande pubblico.
Un declino annunciato già con lo spostamento di Fazio dalla rete più generalista a quell’avamposto di resistenza culturale che è Rai3.
Madre è un gioiello teatrale di rara bellezza, destinato a rifulgere nella coscienza e nella memoria degli spettatori per lungo tempo. Basato sul poemetto scenico scritto da Marco Martinelli, si compone di due soliloqui pronunciati da due personaggi senza nome, Madre e Figlio, che incontrano troppe difficoltà comunicative a causa del solipsismo quasi autistico dell’omone di cui non conosciamo neanche l’età.
In fondo la felicità è una cosa così semplice che a volte può essere dimenticata in uno zainetto. Ma riconoscerla e poi regalarla a qualcuno, vi assicuro, fa volare.
La regia di Matteo Tarasco riesce a restituire l’intimità dei rapporti familiari, gli aspetti che Pasolini intellettuale e poeta non avrebbe mai lasciato trasparire. Le fragilità di un uomo rimasto incompreso e ai margini di una società incapace di comprenderne la grandezza.
I “fratelli der faina” esistono davvero. Tra di loro si chiamano “fraté” e comunicano urlando, come se il mondo intorno non avesse orecchie per sentire.